Secondo la tradizione psicologica indovedica il desiderare è funzione insopprimibile ed essenziale all’esistenza. Ogni individuo esprime determinate necessità che corrispondono alla natura della specie a cui appartiene. Il Vishnu Purana ci parla di ben 400.000 specie umane, che non hanno nulla a che vedere con differenze razziali, ma che scaturiscono dalle diverse, potenzialmente infinite, combinazioni delle tre influenze materiali (guna) che ciascuna di esse subisce in proporzioni variabili, e che costituiscono gli elementi di base dell’intera realtà psicofisica: ignoranza (tamas), passione (rajas) e virtù (sattva). Ad ognuna di queste diverse combinazioni corrisponde dunque uno specifico desiderare, che è immediatamente coordinato al piano dei comportamenti e della morale, e a quello dei valori di riferimento e dell’etica.
Che moralità del desiderio e moralità dell’esistenza coincidano è confermato da Krishna stesso(1), che nella Bhagavad-Gita afferma:
Dharmaviruddho bhuteshu
Kamo ‘smi bharatarshaba
“Negli esseri viventi Io sono il desiderio che non contraddice l’ordine cosmico(2).”
La stessa società tradizionale dell'India riflette le medesime condizioni. La vita indiana è stata per millenni modellata su tipi di condotta sanciti dalla tradizione, che riflettono la armoniosa varietà che compone il corpo sociale e che hanno il loro fondamento proprio su questo ordine cosmico. In questa sociologia non trova nessuno spazio la rigidità e la cavillosità del sistema castale che si è andato affermando negli ultimi secoli, fondato sul diritto di nascita e non sulla valutazione delle reali tendenze ed esperienze di cui ciascuno è portatore.
Catur-varnyam mayashrishtam
Guna -karma-vibhagashah
“Io [Dio, la Persona Suprema] ho creato le quattro divisioni della società umana sulla base delle tendenze e delle esperienze di ciascun individuo(3)”.
Un modello sociale questo, che sospinge ogni individuo, attraverso la coopartecipazione a un progetto superiore, a sviluppare al massimo la propria personalità, in vista della propria piena realizzazione.
Per l'indiano questa conformità esteriore, grazie a cui l'uomo si perde nella folla allo stesso modo in cui la vera architettura pare essere parte del paesaggio locale, costituisce una privacy entro cui il carattere individuale può fiorire liberamente. Una società che pretende che ciascun uomo salvi la propria anima -dove prevale l'idea del self-made man- in realtà condanna ciascuno, in risposta ai propri bisogni di autoaffermazione, a un'esibizione delle proprie irregolarità e imperfezioni, e tali imperfezioni si trasformano fin troppo facilmente in un esibizionismo che fa della vanità una virtù, e che ci si compiace di definire espressione di sé.
L'artista svolge, in quel contesto, una specifica e riconosciuta funzione sociale, ed è chiamato a rispondere a determinate esigenze; non si dedica alla produzione di opere d'arte spinto da una vana ricerca del bello, oppure nel tentativo di fuggire alla vita. Quello dell'artista è a un tempo mestiere e vocazione, coerentemente con il sistema tradizionale del varna-ashram dharma. L'artista non è né un filantropo né un parassita; è chiamato a lavorare per il bene dell'opera in sé e per questo lavoro merita le sua ricompensa. Il mondo ha ogni diritto di sapere su cosa sia e per cosa sia un'opera d'arte; e se l'artista risponde, su niente e per niente, oppure su aspetti della mia personalità e per la mia gloria, il mondo non gli è debitore di nulla.
Coerentemente a questo modello di riferimento, e come vedremo meglio in seguito, nel processo di creazione ed esperienza dell’oggetto artistico è attribuito, al gusto soggettivo e condizionato dell’artista come dello spettatore, un ruolo marginale. Come per il pensatore (jñana yogi) o per colui che agisce (karma yogi), così anche per l’artista esiste una norma, suddivisa in canoni particolari di cui si è serbata memoria (smrita) nei trattati tecnici e in base a cui l’opera deve essere fatta.
Solo le opere conformi a tali criteri sono belle attraenti secondo il giudizio di coloro che sanno. Lo spettatore, come l’artista, non deve lasciarsi guidare nella sua esperienza dell’opera da opinioni e gusti individuali; si può giungere a essere un conoscitore, nel vero senso della parola, solo attraverso un processo di umile apprendistato; rettificando l’intera personalità e non semplicemente studiando o collezionando opere d’arte; altrimenti i condizionamenti e i meccanismi automatici della psiche soggettiva finiranno per sovrapporre all'autenticità dell'opera i loro contenuti preesistenti.
La conoscenza estimativa, vale a dire la conoscenza delle cose in quanto in se stesse gradevoli o sgradevoli, è del tutto diversa dalla conoscenza intellegibile, ed è propria degli animali che reagiscono alle sensazioni istintivamente, e non intelligentemente. Solamente un oggetto naturale, la cui esistenza è fine a se stessa, e non un'opera d'arte, può essere detto inintelligibile e puramente sensibile.
La competenza nello spettatore, dunque, non meno dell’abilità nell’artista sono necessariamente delle conquiste; la pratica dell’arte è una disciplina (sadhana) che inizia con l’attenzione (dharana), giunge a perfezione con l’identificazione (samadhi) di sé con l’oggetto o il tema della contemplazione (dhyana), e si traduce in abilità ad agire o a riconoscere.
La cosa fatta con arte, in cui bontà e misura si corrispondono, qualunque sia il suo genere, manterrà inalterato il suo valore sempre e comunque, indipendentemente dalla variabilità di quei desideri che determinano il corso della vita di un uomo in individui differenti o in differenti epoche. L’affezione, o gusto, non è un criterio estetico (pramana); riflette la disposizione soggettiva a essere affetti da determinate forme e non è in alcun modo disinteressato. Nella produzione dell’opera d’arte ne determina lo stile, che non è parametro di riferimento per la valutazione e il godimento dell’opera, ma manifestazione di aspetti superficiali e transeunti della personalità storica dell’artista.
La conoscenza innata dei criteri e dei prototipi è propria degli esseri celesti (deva), che hanno una natura puramente intellettuale, e le opere d’arte dell’uomo sono portate a termine in modo conveniente solo quando sono fatte a imitazione delle arti “angeliche”. Sono proprio questi prototipi a essere ricordati nei trattati canonici e incidentalmente anche altrove, affinché i fabbricanti di immagini possano servirsene come norma. Ciò non significa che l’artista debba attingere le sue conoscenze solo direttamente da testi scritti o recitati; esse possono anche venirgli dagli insegnamenti (upadesha) o dalla pratica (abhyasa).
La relazione tra il maestro e il discepolo è improntata alla tradizione: la conoscenza si trasmette da guru a shishya e in questo modo i professionisti che si succedono l’uno all’altro nella serie dei maestri e dei discepoli (guru-parampara) imparano a lavorare secondo la loro arte, perpetuando di generazione in generazione, con immensa gratitudine e con devoto spirito di servizio, i modelli misericordiosamente ricevuti, che finiranno per sprofondare nella coscienza collettiva dell’arte e per costituire un capitale di riferimento a disposizione di tutti coloro che volessero intraprendere questo sentiero (marga).
Allo stesso tempo non è affatto esclusa la possibilità di un accesso diretto alla più alta forma di conoscenza, ovvero al Signore che con l’emanazione creativa di luce gravida di immagini realizza tutte le possibilità. Questa visione superiore (darshana) implica un livello coscienziale che travalica i limiti dell’osservazione sensoriale e della riflessione, e che si riferisce alla percezione del suono trascendente e della divina parola creatrice (vac) che dimora nel nostro cuore. È nel cuore che si vede o si ode la Sapienza (Vac-Sarasvati); è nel cuore che prendono forma gli stimoli improvvisi dell’intelletto, o che il pensiero viene formulato.
(1) Secondo la tradizione Vaishnava, Dio come Persona Suprema.
(2) Bg. 7.11.II
(3) Bg. 4.13.I
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