Accettando la proposta della Lavin, ma in mancanza di contenitori più adeguati, saranno dunque ancora i vecchi musei, quelli del modernismo o alcune costruzioni appositamente intese come superfici per interazioni artistiche (come le pareti esterne di una casa a Stanfordville, nello stato di New York, progettate per ‘ricevere’ nel 2012 le immagini di Doug Aitken) a prestarsi a esperimenti tra arte contemporanea e architettura? Potrà apparire paradossale, ma i casi migliori sembrano presentarsi quando la collaborazione dà risultati ambigui, nel senso che è difficile arrivare ad una distinzione chiara tra chi dà e chi riceve, come nella DR Concert Hall, dell’Atelier Jean Nouvel a Copenhagen (2009). Se l’uscire dal museo è stata la prerogativa di tanta arte degli anni Sessanta, il ritornarci non sempre forse è stato dettato da un intento provocatorio (vedi Loris Cecchini o Maurizio Cattelan, tra gli altri). Non sempre poi si è trattato di uscire da musei, gallerie o raccolte private. Alcune forme d’arte non vi erano mai entrate, come i graffiti americani, i quali erano forme di provocazione e perciò al di là (almeno all’inizio) delle richieste del mercato.
Oggi la situazione è notevolmente più complessa e le risposte, io credo, dovrebbero essere date particolarmente dove la situazione è più richiedente: nei complessi urbanistici attuali (grandi e piccoli) e non nei ritiri ‘ecosostenibili’ della campagna. Riguardo a questi ultimi, è interessante mettere a confronto la piccola vecchia scuola ristrutturata nel 2008 da Jason Payne nello Utah – che imita nei materiali, rendendoli permanenti, gli effetti altrimenti momentanei prodotti dagli agenti atmosferici – con il padiglione della Fondazione Pietro Rossini a Briosco, semi-interrato, con piante selvatiche che lo ricoprono.
Ma a quale tipo di esperienza – percettiva, multisensoriale, cognitiva – farebbe appello il rapporto arte-architettura nella città contemporanea? Quello che per molti americani era stata l’arte da intendersi (seguendo John Dewey) come esperienza diretta scaturita dall’atto stesso di percepirla, si è oggi trasformata, e questo è un risultato positivo, in qualcosa di meno immediato. Si fa ricorso alla memoria, all’analisi, all’ironia, talvolta anche all’autoironia, sebbene questa qualità sia poco presente nell’arte italiana. Non avrebbero le ironiche cariatidi in ceramica di Leoncillo, una volta ingrandite e collocate ad uno snodo stradale a Spoleto, prodotto un effetto altrettanto sollecitante di quello indubitabile del Teodelapio di Alexander Calder davanti alla stazione ferroviaria, sempre a Spoleto? Oggi giacciono a palazzo Collicola, nel Museo civico di arte moderna della città.
Un ultimo problema. Ci sarebbe ancora spazio oggi per una figura che possa mediare tra arte, architettura e spettatore, nel momento in cui ciò che conta è sollecitare reazioni immediate? Forse il ruolo del critico d’arte odierno dovrebbe essere più complesso di quello del recente passato. Dovrebbe suggerire, motivandoli, nuovi usi degli ambienti urbani, portare lo spettatore alla consapevolezza delle sue reazioni, ed effettivamente ‘criticare’.
Loretta Vandi
il libro citato si può trovare qui: Kissing Architecture