Arte di successo: questione di talento e di Personal Branding

Creato il 20 febbraio 2015 da Nicolastoia

Arte di successo: questione di talento e di Personal Branding
...e mettila da parte

Oggi si accusano artisti contemporanei di aver fondato il proprio successo più sulla capacità di far parlar di sé, piuttosto che sulla forza della loro arte. L’utilizzo da parte loro di alcune delle cosiddette strategie di personal branding, se non addirittura di marketing vero e proprio, infastidiscono i benpensanti e fanno gridare allo scandalo.

Io, che dal mondo della comunicazione arrivo, ho un’opinione chiara e precisa: il marketing e le sue tecniche funzionano solamente se sono al servizio di un prodotto valido. Al contrario se non esiste sostanza, queste strategie contribuiscono solamente a far venire allo scoperto più velocemente le debolezze di ciò che pubblicizzano.

Per l’arte è la stessa cosa: un artista può utilizzare tutta la sua capacità di fare personal branding ma se la sua opera non esprime contenuti di valore, verrà fuori in pochissimo tempo tutta la sua mediocrità.

Detto questo mi sembra chiaro che nessun imbrattatele potrà mai raggiungere il successo solo per la sua capacità di creare relazioni e di far parlare di sé ed è altrettanto vero che nessun genio o fenomeno del pennello raggiungerà mai la fama meritata se se ne starà tutto il giorno chiuso nel suo studio a creare senza mai impegnarsi per far conoscere la sua opera.

Proprio in questi giorni è uscito nelle sale cinematografiche “Big Eyes”, un film diretto da Tim Burton indicativo rispetto a questo tema.

“Big Eyes”: saper dipingere non basta

Il film è tratto da una storia vera. Ne riassumo qui le vicende senza entrare nei particolari per non rovinare la sorpresa a chi volesse andare a vederlo e perché a me interessa soprattutto per trarne spunto per alcune riflessioni.

Siamo nell’America della fine degli anni ’50 inizio anni ’60: gli Stati Uniti sono appena usciti vincitrici dalla grande guerra e sono un paese un po’ spensierato e un po’ bigotto. Margaret Ulbrich scappa dal marito con il quale era diventato impossibile vivere e si traferisce a San Francisco portando con sé la figlia Jane. Ora, in quegli anni non è un avvenimento di tutti i giorni che una donna lasci il nido famigliare e da sola si prenda cura di se stessa e della figlia, quindi è facile immaginare la difficoltà nel trovare un’occupazione.

Soluzione? Fare ciò che sapeva fare meglio: dipingere e vendere i suoi quadri per strada. A questo punto, se fosse un romanzo di fantasia, sarebbe passato davanti alla sua bancarella un grande curatore o un direttore di museo, sarebbe rimasto affascinato dal talento e dalla bellezza della giovane donna, l’avrebbe sposata e portata al successo e tutti sarebbero vissuti felici e contenti, bla bla bla… boooriiiing!

Per fortuna invece si tratta di una storia vera, le cose non andarono poi così lisce e la vicenda è per questo molto più interessante.

Ad avvicinarsi e ad accorgersi del talento della donna è Walter Keane un agente immobiliare, artista di strada della domenica che ama dipingere scialbe vedute di Parigi, mentre i quadri di Margaret hanno come soggetto principale espressive (e devo dire a volte inquietanti) bambine dai grandi occhioni tondi e sproporzionati rispetto al resto della figura. Significato: gli occhi sono lo specchio dell’anima e sono la parte del corpo che meglio caratterizza una persona.

I due cominciano a frequentarsi e quando l’ex marito di Margaret pretende che le venga assegnata la figlia, l’intraprendente Walter propone alla donna di sposarlo. Qui inizia la parte che interessa a noi. Walter è affascinato dalla pittura della novella mogliettina e fa di tutto per esporre i suoi quadri in affermate gallerie della città, ma non è proprio il periodo migliore per l’arte figurativa, è l’arte astratta dei vari Pollock, Rothko, Sam Francis che va per la maggiore in quegli anni.

Ma Walter non si arrende, è un venditore nato: raggiunge un accordo con Enrico Balducci, il proprietario di un famoso locale della zona. I suoi quadri e quelli della moglie sono sì esposti ma nel corridoio che porta ai bagni. Da qui nasce una controversia nel bel mezzo di una serata, prima verbale poi anche fisica durante la quale Keane scaraventa una tela sulla testa del Balducci. La storia fa scalpore, le foto vanno sulle prime pagine dei giornali e indovinate cosa succede… Più gente nel locale, dipinti più in vista, opere finalmente vendute.

Ecco la prima riflessione su cui porre l’accento: le opere di Margaret erano belle anche prima di finire sulle prime pagine dei giornali ma c’è voluto che qualcuno ne parlasse per far sì che anche il grande pubblico le apprezzasse e avesse il coraggio di comprarle. In questo caso l’evento scatenante è stato un po’ fortuito e anche comico ma comunque efficace, tant’è vero che sia Walter che Balducci ci marceranno sopra e continueranno a simulare finti litigi per cavalcare l’onda e far parlare dei dipinti come del locale.

Ad ognuno il suo lavoro

A questo punto il primo passo è fatto, l’interesse verso i quadri è nato. Walter si accorge però ben presto che i dipinti della moglie attirano maggiormente l’attenzione del pubblico rispetto alle sue vedute parigine e, approfittando del fatto che sono entrambi firmati solamente con il cognome acquisito “Keane”, si appropria della paternità, in un primo momento all’insaputa di Margaret.

Grazie alla sua spigliatezza Walter riesce a far crescere la popolarità (e i prezzi) dei quadri dipinti dalla moglie facendoli sempre passare come sue opere, conclude affari importanti, dona dipinti a personaggi illustri e si fa immortalare con loro (insomma fa personal branding). Una scena importante del film è quando un importante collezionista, Dino Olivetti, rampollo della famosa famiglia industriale italiana, si innamora di una delle bambine dipinte da Margaret. L’impacciata donna, dopo un attimo di esitazione, si fa anticipare dal marito ed è lui che tesse la relazione con il giovane collezionista. Da quel momento in poi il gioco diventa sempre più grosso e Margaret, ormai dentro fino al collo nell’operazione fraudolenta, ha sempre più rimorsi di coscienza. Intanto i soldi arrivano a fiumi, gli affari si fanno sempre più grossi e Walter crea una “Factory” stile Andy Warhol mentre la moglie continua a dipingere e sfornare quadri da immettere nel mercato di nascosto persino dalla figlia. Non voglio rovinarvi il finale del film quindi se vi interessa andate al cinema oppure cercate su Wikipedia l’intera storia.

Il punto a cui volevo arrivare è questo: se si è interessati al successo, non basta essere grandi artisti, bisogna anche sapersi vendere. Questo vale nel campo dell’arte come in tutte le professioni e vale oggi come valeva 500 anni fa. Se Caravaggio fosse rimasto a vivere in un paesino in provincia di Bergamo e non fosse partito per Roma, dove nel ‘600 si trovava il più grande dei committenti di allora, la Chiesa, sicuramente non avrebbe avuto tutto il successo e i seguaci che invece ha avuto.

Puoi essere il miglior architetto del mondo ma se ti limiti a costruire palazzi a Rescaldina e non ti confronti con committenze più importanti in grandi città, difficilmente verrai riconosciuto. Se Lionel Messi fosse rimasto a giocare nei campi di terra in Argentina e non avesse lasciato casa e famiglia per trasferirsi a Barcellona, adesso sarebbe comunque un fenomeno ma non avrebbe mai vinto tre (o quattro?) palloni d’oro e sarebbe rimasto sconosciuto ai più.

Margaret era impacciata, timida, poco propensa a instaurare relazioni e a elogiare il suo lavoro. Walter al contrario aveva tutte le caratteristiche che mancavano alla moglie: fascino, intraprendenza e una grossissima faccia tosta. I due si completavano e se il signor Keane fosse stato onesto e si fosse limitato a fare ciò che gli riusciva meglio (promuovere, vendere, creare contatti e fare affari) senza appropriarsi della paternità delle opere, la storia si sarebbe conclusa nel migliore dei modi per tutti i personaggi.

Ci sono artisti che non si trovano a loro agio davanti ai riflettori, mentre ce ne sono altri che probabilmente sono più bravi a promuoversi che a dipingere. Il pittore che non si sa vendere, deve almeno sforzarsi di instaurare buoni rapporti con galleristi che sanno fare il loro mestiere. Ad ognuno il suo lavoro: l’artista fa i quadri, il gallerista li vende. Ma anche l’artista più introverso deve tirare fuori ogni tanto la testa dallo studio per parlare con critici, curatori, collezionisti e magari anche con colleghi, è inevitabile. Il mondo dell’arte è un sistema fatto di relazioni e chi è più bravo a tesserle ha più successo di chi non lo è. È probabile che un buon artista capace di promuovere il suo lavoro raggiungerà una fama maggiore di un fenomeno incapace di comunicare.

Poi arriva la storia e davanti a lei si tirano i conti e tutto si sistema. Ma per quello ci vuole tempo, bisogna saper aspettare e non tutti sono così fortunati da arrivare a vedere la propria fama crescere in vita.

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...e mettila da parte - discussioni e litigi sul mondo dell'arte.


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