Non rompo il patto coi lettori stretto a ridosso dell’inaugurazione dell’Incompiuta, l’evento da Belle Epoque, (https://ilsimplicissimus2.wordpress.com/2015/05/03/expo-lo-spinello-del-popolo/) che passerà alla storia come una delle fiere paesane meno frequentate, meno prestigiose, meno redditizie, meno trasparenti, perfino nel numero dei frequentatori.
No, cito l’Expo di sguincio, per rammentare come in sede di edificazione di questa “fabbrica” simbolica della cultura dell’emergenza, quella che autorizza il festoso scavalcamento di regole, il “necessario” aggiramento delle leggi, ingiuriando anche quelle del buon senso, si volle che soprattutto la sede dei fasti del fornitore di salamini e finocchiona, insomma la greppia del norcino del premier, Eataly, fosse adornata delle opere immortali dell’arte italiana, a sancire che la rottamazione della democrazia reca in sé il messaggio e l’annuncio di un nuovo Rinascimento.
Mica è la prima volta. Mostra-evento nel tempio laico del gusto, il megastore Eataly ospita due guglie del Duomo in trasferta a New York, recitava raggiante nell’ottobre 2014 il Corriere della sera, esultando per l’iniziativa disinteressata del mecenate cacio e pepe di dare vita alla charity International Patrons of Duomo di Milano. E che dire del punto vendita fiorentino inaugurato insieme a quell’erede della dinastia medicea nella persona dell’allora podestà Renzi nel 2013, definito a suo tempo un bignamino per le elementari del Rinascimento italiano? E come commentare la presenza nello store di New York tra pacchi di pasta e barattoli di pelati di una statua originale del secondo Quattrocento proveniente dal Duomo di Milano, anch’essa inscatolata nel plexiglas tra gli scaffali?
Il vorace e allupato patron di Eataly, intenzionato a mangiarsi l’Italia, si era aggiudicato senza gara negli spazi espositivi non solo ottomila metri quadrati, 20 ristoranti e circa 2,2 milioni di pasti da distribuire, assicurandosi anche il 95% dei ricavi, ma anche l’opportunità di accogliere nel Luna Park a esaltazione del suo brand “la grande storia e la grande bellezza del Paese” in un “Louvre dell’Expo”, dove “ospitare tutta l’Italia, ma nello spirito di Eataly”. Il suo compagno di merende Sgarbi, che si è autodefinito Napoleone per la grandezza dell’impresa di riunire tanti capolavori, oltre 350 disse, per renderli accessibili ai visitatori, rivendicò allora di essere andato a «scovarle» in tutte le regioni italiane, in chiese, musei, istituzioni importanti e collezioni private.
Ecco. E infatti otto statue attribuite a Nicola e Giovanni Pisano del Museo dell’Opera del Duomo di Siena sono esposti fino al 15 ottobre nella chiesa di San Gottardo in Corte in uno spazio “condiviso” con l’azienda Robot City, specializzata nella riproduzione di opere d’arte in 3 dimensioni che approfitta della felice occasione per esibire la sua produzione , malgrado la locale Soprintendenza competente,in accordo con il Polo Museale Regionale della Toscana, avesse provato a opporsi richiamando questioni di opportunità e di salvaguardia. È andata meglio al San Paolo di Masaccio: la tavola è ancora al museo di San Matteo a Pisa e fanno sapere dalla prestigiosa istituzione che “la (sconosciuta) ditta Rumbo Fine Art, incaricata di gestire il trasporto delle opere allo spazio espositivo di Eataly, non si è più fatta sentire”, facendo ritenere che “nella confusione siano dimenticati della tavola”, il cui prestito era stato caldeggiato addirittura dal Segretario Generale della Presidenza della Repubblica, visto “il carattere eccezionale dell’evento rappresentato da Expo 2015”.
D’altra parte che cosa ci possiamo aspettare da un ceto di governo che nella riforma della Buona scuola, “dimentica” di reinserire l’insegnamento della storia dell’arte, da sindaci che vogliono che gli Uffizi diventino macchine per far soldi come a Las Vegas, dal susseguirsi di ministri che ripetendo il mantra citrullo del “nostro petrolio” dei nostri “giacimenti culturali”, li lasciano in abbandono perseguendo il recondito proposito di alienarli a basso prezzo, come merce fallata in liquidazione, di chi vorrebbe giochi d’acqua, duelli di gladiatori, ovviamente calzati Tod’s al Colosseo e le Olimpiadi al Circo Massimo? E che dire di chi promuove viaggi intercontinentali di delicatissime opere d’arte in una girandola di rassegne che ha contagiato il Giappone, la Cina, i paesi degli sceicchi, secondo una efferata pratica planetaria che nulla ha a che fare con la democratizzazione della cultura. Che d’altra parte fu proprio Mussolini nel 1930 a volere quell’evento che portò a Londra, via nave superando una tempesta al largo della Bretagna, la Venere di Botticelli, la Tempesta del Giorgione, capolavori di Masaccio, Carpaccio, Tiziano e molti altri , come propaganda del sogno imperiale.
È che ormai ogni Grande Evento è corredato dall’esposizione dei gioielli di famiglia, come succedeva alla nobiltà decaduta che pensava di salvare la faccia e l’aristocratica superiorità esibendo il poco rimasto, ritirato per l’occasione dal Monte di Pietà.
Poco vale ricordare che la qualità del nostro patrimonio d’arte risiede proprio nel suo radicamento, nella formidabile interazione tra l’opera e il suo territorio tanto che traggono e si danno luce reciprocamente. E che questo carattere speciale dovrebbe ispirare un turismo che attragga in luoghi “minori”, in una geografia d’arte e di paesaggio diffusa, visitatori che avrebbero l’occasione irripetibile di conoscere opere e artisti nel contesto che li ha generati.
Come al solito dobbiamo guardarci da una delle parole preferite da questo regime: valorizzazione. Che vuol dire staccare tanti biglietti, affidare in comodato trentennale a sponsor siti archeologici, permettere a uno stilista di disporre di un ponte di Firenze come mensa, a una grande banca d’affari di accomodare i suoi clienti in una chiesa medioevale di proprietà pubblica, far sfilare l’intimo nella Gipsoteca del Canova, di pubblicizzare salsicce con qualche Luca della Robbia. Che vuole dire non finanziare più il patrimonio culturale, bene di tutti, con i soldi di tutti – quelli che pagano le tasse – ma di alienarli offrendoli a pochi, che ne traggono profitto, pubblicità, benefici diretti e indiretti.
Tra i tanti modi di stracciare la carta costituzionale, la cancellazione dell’articolo 9 che sancisce l’esproprio della bellezza – nostra, di tutti – è uno dei più odiosi.