Articolo 18 dove sei?

Da Farfalla Legger@ @annamariaa80

Sei contratti a termine, uno dopo l’altro, per quattro anni. Con il sogno di essere assunta. Ma un giorno rimane incinta. E l’azienda la manda via. Un caso, certo. Come altri 800 mila in Italia

«Nel 2008 e nel 2009 circa 800 mila donne italiane hanno dichiarato di essere state licenziate o messe in condizioni di doversi dimettere perchè in stato di gravidanza». Parole dell’Istat, l’Istituto nazionale di Statistica,che – passate le mimose dell’8 marzo – appaiono come una squarcio sulla realtà della condizione femminile nel nostro Paese.Poche settimane fa la questione è stata sollevata per la clausola choc nei contratti Rai, che appunto prevedeva la possibilità di annullamento del contratto per le precarie incinte. Ma la realtà, quella di tutti i giorni, va molto oltre la tivù di Stato.

Quello di Milena Ussia, 36 anni, di Siena, è un esempio molto concreto di come la discriminazione di genere si traduca in discriminazione sul lavoro, senza nemmeno il bisogno di violare la legge.

Per quattro anni Milena ha lavorato alla Terrecablate, società di telecomunicazioni partecipata dalla provincia. Lì ha avuto ben sei contratti: prima da stagista, poi come collaboratrice. Prima direttamente con l’azienda, poi tramite agenzia interinale (Manpower), quando il limite legale di contratti a termine stava per essere sorpassato. Di sei mesi in sei mesi, per mille euro al mese, ogni volta un’attesa nella speranza di essere assunta e potersi costruire una vita.

Milena però aveva un grosso difetto: era la dipendente numero 16. O meglio, lo sarebbe stata il giorno in cui l’avrebbero assunta, facendo così passare a Terrecablate la soglia in cui scatta l’obbligo per l’azienda di osservare l’articolo 18 sul licenziamento per giusta causa.

Nell’agosto del 2011 Milena comunica all’azienda di aspettare un bambino,e presenta loro il certificato che indica la presunta data del parto: 27 ottobre 2011. Proprio lo stesso giorno che – una settimana dopo – l’azienda sceglierà per sostenere il concorso che permetterà a tutti e sei i dipendenti precari di essere assunti a tempo determinato. Tutti tranne Milena, ovviamente, che quel giorno sarà in ospedale.

Milena comunque va a lavorare fino alla fine dell’ottavo mese di gravidanza, mentre i medici indicano il settimo mese come limite: «Sai, è sempre un mese in più di stipendio, e poi volevo venire incontro all’azienda proprio per evitare problemi», racconta.

Milena si occupava dell’ufficio amministrazione clienti, del database dati, delle fatturazioni, della rete di vendita, i depliant, i solleciti. Una mansione importante, che svolgeva assieme a tre colleghe: «Nell’amministrativo eravamo tutte donne», spiega una collega di Milena, «mentre all’ufficio tecnico principalmente uomini. I quadri, i primi livelli, sono tutti uomini».

Eppure la società s.r.l. Terrecablate, nata nel 2005 è di proprietà del consorzio Terrecablate, a sua volta costituito al 32 per cento da provincia e comune di Siena, in mano al Pd, come spiega Marco Iacoboni della Cgil: «Abbiamo fatto causa per la situazione di Milena, e lo scorso ottobre abbiamo indetto una conferenza stampa rivolgendoci proprio al Pd», dice il sindacalista. «Ma non è servito a niente». Iacoboni sostiene inoltre che Terrecablate non aveva alcun obbligo di indire un bando di concorso per le assunzioni, non essendo la società totalmente pubblica. Un atto di trasparenza non dovuto, che si è tradotto per l’addetto Cgil in un «chiaro atto discriminatorio».

Ma Milena, che ha appena 36 anni, non è certo una ‘sfigata’, per dirla alla Martone. Laureata in chimica e tecnologie farmaceutiche, dopo un diploma in ragioneria a cui se ne aggiunge un altro da amministratrice alberghiera. Ha fatto la baby sitter, distribuzione quotidiani, ha lavorato nelle scuole. Fa anche volontariato alla Misericordia: «Accompagno le persone a fare visite mediche, facciamo raccolta di alimenti. E’ una cosa che mi gratifica».

Quattro giorni fa, il 5 marzo, a Milena è scaduta la maternità ed è diventata una disoccupata al 100 per cento. «Per fortuna il mio compagno lavora, vernicia le carrozzerie, ma le spese sono tante e dovrò cercare un part time», dice.

Milena ora si ritrova con 2.000 euro di liquidazione. Se avesse potuto avvalersi dell’articolo18 avrebbe avuto diritto a un anno di stipendio: «Posso assicurarti che stare seduti col pancione stanca, e lavorare alla scrivania è faticoso. Tra la fatica, le nausee, la tensione psicologica per l’incertezza del contratto è stata proprio dura», racconta. Quello che per una donna è già un periodo difficile si è trasformato in qualcosa di insostenibile. «Quando ho scoperto che il concorso era il giorno esatto del parto che avevo segnalato sono uscita di testa».

La vicenda di Milena è stato «un atto becero dei dirigenti», dice ancora Iacoboni, «che hanno messo il carico sulla persona più debole». In attesa del ricorso e di un equo indennizzo, a Milena, per scelta o necessità, non resta che fare la mamma.

E’ una cosa che la rende felice, dice.

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/dopo-l8-marzo-storia-di-milena/2176198


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