Ascanio Celestini è in giro per i teatri italiani con il suo Discorsi alla nazione, uno spettacolo presidenziale. Uno spettacolo già visto, allo stato embrionale e di studio, lo scorso anno.
Idealmente, i tiranni appaiono al balcone e parlano a cuore aperto. Hanno manie, un odio profondo, o una deprimente frustrazione, che li dilaniano e che li muovono. In questo Paese, un po’ come oggi in Italia (ma Celestini non poteva saperlo) piove ininterrottamente, e si discute solo della pioggia, come se il problema del paese fosse questo, e non che è in guerra, perché “se siamo in guerra non è che muoiono tutti, ma se piove, tutti si bagnano”.
Quindi, prima del tiranno, ci sono l’Uomo Invisibile del primo piano, c’è l’Uomo con l’Ombrello, che sta all’ultimo piano, e che vive (fisicamente) sopra all’uomo senza ombrello, c’è l’Uomo con la Pistola, che deve sempre tenerla in tasca e immaginare tutti come un bersaglio…
A corollario dello spettacolo, la mezz’ora di voci che accoglie durante l’ingresso a teatro: Bettino Craxi (con il suo celebre discorso in cui disse, tutto sommato, che rubare è giusto perché lo fanno tutti), Margaret Tatcher, Mao Tze Dong, Gian Maria Volontè, Marine Le Pen…
Si inizia ridendo, Celestini scherza sulla pioggia e sul freddo di Milano, dice che da Roma sarebbe dovuto venire con il colbacco, racconta il lapsus di Berlusconi, quello del kapò, e ricorda la faccia di Gianfranco Fini alle spalle del Cavaliere, che forse non significava “Questa non dovevi dirla”, ma “Questa la penso anche io, ma mica la dico!”
In Italia la democrazia non c’è mai stata – dice Celestini, dando al sua spiegazione sul perché lo scorso anno i festeggiamenti per l’anniversario della nascita dell’Italia sono stati confusi con quelli dell’anniversario della Repubblica – prima era un regime monarchico, poi fascista, quindi democristiano ed infine berlusconiano.
“Ora cosa c’è? Non lo sappiamo, perché non sai quanto è profonda la palude quando ci stai dentro”.
“Per vincere il Nobel della Pace, per lo meno non dovresti ammazzare la gente in giro per il mondo, non dico che devi far attraversare le vecchiette, ma non ammazzare”.
In tutto questo, la Cina, gli Usa, la Russia sono amici, perché ricchi, ed a Cuba, povera ed inutile, applichiamo l’embargo e le sanzioni, ma è giusto perché “non conta un cazzo”.
Poi Celestini inizia a perdere il pubblico, che sino a qui gli è stato saldamente accanto, rivelando le sue ambiguità e contraddizioni. Parla dei “negri. Non si dice negri ma non so come chiamarli: neri è uguale, de colore fa ridere, che è? ‘n camaleonte? Diversamente bianco?”
Rispetto alla fase embrionale, Discorsi alla nazione è molto meglio articolato nella parte iniziale, quando Celestini interpreta Celestini. Il pubblico ci cade ancor più facilmente, si sente serpeggiare tra le persone presenti, atterrite, il dubbio che Celestini sia serio. Si sente che considerano ciò che dice, per esempio quando parla di Geddafi, che pensano possa aver ragione. La provocazione viene colta quando si è molto avanti nell’esperimento dell’attore romano. Quindi, è perfettamente riuscita.
La parte centrale, con i vari inquilini alle prese con le loro fissazioni, è migliore, anche perché è stato ideato un fil rouge ad unire le scene: le telefonate della donna al portiere chiedendogli che tolga “la cosa” da davanti alla porta.
Invece la parte conclusiva, quando arriva il dittatore, e descrive il mondo ideale e bellissimo che ci sarebbe se la Sinistra fosse al potere e Gramsci primo ministro, è più loffia, più retorica, sfacciata rispetto a uno spettacolo tutto molto ambiguo ed in sordina, e nei discorsi preparatori dello scorso anno era resa meglio.
Written by Silvia Tozzi