Fabio De Luigi e Luciana Littizzetto
Aspirante vedovo avrebbe potuto elargire, soprattutto in fase di scrittura, un po’ di autentico coraggio, rivolto a sezionare chirurgicamente col bisturi della satira i vari bubboni presenti nella nostra attualità, invece di risolvere il tutto lasciando che scorrano battute, non sempre felici, gettate là senza neanche tanta convinzione, giusto per offrire il destro al solito lavacro di coscienza collettivo atto ad offrire momentanea purificazione, fra una riflessione forzata e una risatina a denti stretti.
Risi metteva in scena le contraddizioni di un’Italia in preda all’euforia del boom economico, dove l’elemento affettivo dei rapporti umani iniziava ad essere oggetto di mercificazione, mediando fra la satira di costume e lo humour nero di scuola britannica. Riusciva, inoltre, a contrapporre una “spontaneità” imprenditoriale arrivista, immorale (riproposizione dell’antica arte d’arrangiarsi), ad una mentalità freddamente industriale, non certo inferiore nelle “doti” espresse, ma vincente, in quanto coerente con i nuovi valori e i mutati comportamenti sociali in atto al tempo, tra accumulo di ricchezza ed ostentazione di sicurezza economica.
Alessandro Besentini e De Luigi
Venier e compagnia, invece di cogliere l’attualità del plot originario e dare vita ad una prosecuzione del suddetto contrasto ai giorni nostri, con tutti i mutamenti “evolutivi” del caso, vedi il Monopoli messo in atto fra “furbetti del quartierino” e i grossi squali della finanza e dell’imprenditoria, hanno reso i personaggi semplici figurine di cartone, che si stagliano su un fondale in apparenza reale, la crisi economica, ma finto nella sua ricostruzione alla bisogna, ovvero fornire spunto alle interpretazioni di Fabio De Luigi e Luciana Littizzetto.
Il primo, nei panni dell’imprenditore Alberto Nardi, in costante fallimento finanziario per un misto d’inabilità gestionale e tronfia sicumera, non riesce a delineare il ritratto di uomo moralmente meschino, vittima della sua stessa megalomania ed incapace di scendere a patti con i propri limiti ed errori, e tende, ancora una volta, ad offrire la consueta caratterizzazione da giuggiolone sciamannato, comprensiva della solita faccina da cartone animato, fra espressioni ora buffe, ora contrite. Queste si pongono a metà strada fra i cavalli di battaglia dell’attore, il bimbetto scoperto con le mani nella marmellata e il ragazzone redarguito dalla madre per aver sbagliato detersivo nel lavare la camicia (il riferimento a un noto spot di cui il nostro è protagonista non è puramente casuale).
Luciana Littizzetto
Riguardo la Littizzetto, che interpreta la moglie di Nardi, Susanna Almiraghi, navigata imprenditrice, prosecutrice dell’ impero industriale familiare, le cui sostanziose finanze foraggiano, almeno sino ad un certo punto, le attività del suo gnugnu, l’interpretazione non va al di là del noto sguardo da furetto incarognito e nel digrignare la mascella a piè sospinto. La personalità del personaggio originario (difficile dimenticare gli occhi gelidi e il ghigno beffardo, uniti ad una certa amarezza, espressi a suo tempo dalla Valeri) è risolta insistendo su una cattiveria di fondo gratuita, evidenziata attraverso gestualità, azioni e battute espresse svogliatamente, adeguando il sostegno recitativo a quello, latente, della sceneggiatura, nell’incapacità di cavalcare un cinismo che sia brutalmente veritiero e non solo di facciata.
Littizzetto e Clizia Fornasier
L’irrisolto apporto offerto dai due interpreti principali lo si nota in particolare nella sequenza del funerale conseguente alla presunta morte di Susanna, avvenuta in seguito ad un incidente aereo, resa sbrigativamente, senza alcun mordente che non sia costituito dalla piattezza della messa in scena. Neanche le interpretazioni secondarie possono venire in aiuto, mandando a farsi benedire, una volta per tutte, la nostra tradizione di validi caratteristi: vedi il tuttofare Stucchi di Ale (Alessandro Besentini), che si muove in scena con fare spesso assente e imbarazzato, ben spalleggiato al riguardo dall’inutile Francesco Brandi (Giancarlo, cugino e autista di Alberto), sino ad arrivare alla brutta caratterizzazione delineata da Clizia Fornasier nei panni dell’amante di Nardi, Giada, un’insistenza fastidiosa nel sin troppo reiterato cliché dell’oca giuliva, lungi dal riuscire a rappresentare un’ apparente ingenuità, integrata a dovere dalla scaltra avvedutezza dei suoi genitori.
Massimo Venier
Aspirante vedovo scivola via senza colpo ferire, arriva stancamente ad un finale sin troppo elaborato ed inutilmente doppio, e si auto relega in castigo dietro la lavagna dei film da dimenticare in virtù di un solipsistico gioco di rimandi, citazioni e maldestri adattamenti.
Si crogiola, come il protagonista, in un acquisito e fortuito stato vedovile, costituto dall’evidente incapacità di rielaborare idee già valide di per sé, assoluta novità rispetto all’inabilità nel proporre qualcosa d’inedito, le quali richiedevano una complice sinergia fra regia, scrittura e recitazione. Da qui al brusco ritorno alla realtà il passo è breve: “Cosa fai, cretinetti, parli da solo?”