Magazine Diario personale

Assaggi di romanzi inediti - da "GIGOLÓ PER CLIENTE UNICA": capitolo 2

Creato il 22 settembre 2014 da Zioscriba

2.
Reginalda
Così s’approssimavano i quaranta, ben più reali di quella prua di transatlantico, e altrettanto minacciosi. I residui della già non pingue eredità andavano sciogliendosi come ghiaccioli sulla spiaggia a fine luglio, l’avarizia previdenziale non prevedeva reversibilità per figli ex mantenuti e vagamente artisti, e a suggerirmi l’idea gigolosa era stato un film con Andy Garcia. Ma l’essere scrittore fallito come quello impersonato da lui non era requisito sufficiente. Possedevo delle tare che mi zavorravano lo slancio. Due: ero un pigro e un codardo. Soprattutto un pigro. In quello non mi batteva nessuno. Mai accontentato delle sole pantofole: il mio ideale era vivere in pigiama. E così, invece di tuffarmi a corpo morto nell’idea e mettermi in pista, ne trassi spunto per un racconto. Incompiuto, è chiaro. 
La prima cliente si chiamava Reginalda, e poteva benissimo rimanere l’unica. E pazienza per i baffi. Un posto dove stare, abbastanza da mangiare, qualche capriccio di Véronique e di altri mestessi erotici da soddisfare di tanto in tanto noleggiando una ragazza, un cerbiattello, o attaccandomi a qualche tram sessuale, eccole qui le mie sole pretese – e riuscire, gigoleggiando, a stivare sufficienti provviste nelle cavità del mio castagno immaginario, per ritirarmici scoiattolo. (Parole d’ordine di quell’ultima fase: stiracchiarsi, conforto, cipeciop, centellinare, letargo, bromuro). In fondo m’ero sempre goduto quel poco che avevo, non per modestia rinunciataria, ma per sempre più acuita selettività, e più passavano gli anni più limavo via le esigenze. Solo la libertà, contava. Più dell’ossigeno stesso. E il tutto, si capisce, in selvatica solitudo. La mia canzone-manifesto era Who can it be now?, incisa dagli australiani Men at work nei primi Ottanta, contrariata reazione al bussare alla porta che in valcuviese si tradurrebbe: E mò ki ghè scià?, e in italiano: Chi è che rompe il cazzo a quest’ora? Lo so, lo so, io sarò di quelli rinvenuti, già ben decomposti e assaggiati dal gatto affamato, una ventina di giorni dopo la morte, e solo a causa della gran puzza, e i caganotizie mi appiccicheranno col naso tappato la risaputa etichetta: NUOVO DRAMMA DELLA SOLITUDINE. (Semmai il dramma della putrefazione, coglioni!)Ma l’idea era quella: di cliente ne bastava una. Inutile collezionar baggiane. Trovare quella giusta e spremerla il giusto. Questa Reginalda poteva avere settant’anni, forse qualcosina più, ma sotto le sue lenzuola malva profumate di lavanda (lei profumava tutta di noce di cocco) sapeva dimenarsi come una focosa giumenta di, facciamo, cinquantacinque. Ero stato fortunato, come lo si può essere di solito nei parti più o meno indolori della creatività. Aveva anche, il che non guastava, il senso musicale e sapientissimo del gemito, quasi provenisse da una lunga carriera di doppiatrice di filmetti hard core. Doppiatrice, non protagonista, perché di viso non era bellissima, un po’ pinocchia di naso, seno ce n’era pochino, e in generale era un po’ troppo allampanata, spigolosa. Non ci si deve concedere la luna neppure con la fantasia. Bisogna essere onesti. Un minimo. Ma nel buio fitto della sua camera matrimoniale al quinto piano, i gemiti e la smania bastavano e avanzavano, per attizzarmi bene.
L’unico problema con Reginalda era la pretesa ch’io indossassi gli abiti del defunto marito, che oltretutto mi andavano strettissimi, e m’incollassi sopra le labbra, onde somigliargli di più, dei ridicoli baffoni neri che m’impizzicorivano le narici. Sul più bello, poi, mentre io, tamponandola pegoraro, coi baffoni spioventi le solleticavo il collo e le imbrividivo la spina dorsale, lei invariabilmente si metteva a invocare il marito: “Ooh, Pierguido! Pierguidooo! Pierguidoooooooooooooo!”. A quel punto, starnutivo. Poi lei scoppiava a piangere, e io la consolavo. Fin troppo bello, no? Al primo colpo, la cliente sognata da ogni gigoló: baffoni pierguidosi a parte non esageratamente rompiballe, zero pretese mondane (troppo ipocrituccia perbene per esibirmi al guinzaglio in Galleria o portarmi a lezione di tango, per mia fortuna) niente appiccicosità affettive appena smettevo d’impersonare il mortaccio, e fiato buono, ascelle non tanfolanti – grazie – e al reparto dermatologia pochi nèi e nessun bitorzolume. Mi meravigliavo di non avere concorrenti. Sì, non c’era nessun bisogno di andare alla ricerca di altre. Non avrei più ripetuto l’annuncio su Cazzi Paonazzi (“Bukowski mancato coccolerebbe Muse deluse. Astenersi fetuse”), e avrei declinato eventuali proposte di quante l’avessero già letto. Reginalda era un giochino divertente. Persino, lo ammetto, eccitante. E mi avrebbe dato di che vivere. Evviva il pigro gigoló che si contenta, evviva lo scoiattolino troia epicureo. Peccato solo che dopo appena la seconda manche mi risvegliai con lei che mi stringeva stretto stretto. Fin quasi a strozzarmi. L’abbraccio agghiacciante del più rigido rigor mortis. Stecchita nel suo mare di cocco e lavanda. L’urlo di raccapriccio che a stento trattenni doveva essere un urlo così liberatorio e potente che trattenerlo mi causò una gastroduodenite.Cancellai tutto quel che potevo cancellare, e me la diedi a gambe.
A quel punto rivagliai proposte. Un giovedì pomeriggio mi recai nel palazzo puzzolente di muffe lussuose e moquettate di Anselma, nobildonna varesina costretta su una sedia a rotelle per essersi tuffata male da uno yacht in Costa Smeralda. La circondava una magnifica corte di servitù, ma io non avevo ancora deciso se Anselma, nel racconto, mi avrebbe fatto un duro predicozzo sull’amore mercenario e poi cacciato via con disprezzo, pagandomi lo stesso per mortificarmi di più, o se invece, avvinghiandomi a lei su quella sua sedia che sobbalzava e cigolava impazzita nella gran suite da castellana, avrei fatto con l’Anselma a rotelle la più scatenata, violenta, assatanata, politicamente scorretta (o corretta?) delle chiavate. Sapevo solo che poi la governante, o capo-serva, o damigella di compagnia, avrebbe costatato il decesso di Anselma come io avevo costatato quello di Reginalda.E via così, col funesto gigoló sempre più terrorizzato, le clienti che gli crepavano a grappoli tra le mani, e lui a interrogarsi se a perseguitarlo fosse la sfiga, o una maledizione, o se un serial killer, o qualche demone, si prendesse pericolosamente gioco di lui, o ancora se fosse a livello inconscio e senza memoria lui, l’assassino da fermare – o se comunque di questo avrebbero finito col convincersi gli investigatori, piperecci e non.Il racconto sarebbe diventato un romanzo, intitolato Gigoló mortale. Ma se non avevi scritto il racconto, figurarsi un romanzo. E poi, capivo benissimo che nessun editore avrebbe mai voluto pubblicare una sciocchezza simile. Bastava la scelta di quei nomi improbabili, a farmelo cestinare da me. Perché continuavo a sabotarmi così? Reginalda e Pierguido erano macchiettismo di retroguardia, e valevano da soli un rifiuto prestampato. Meritato.
Albero cavo o non albero cavo, esigenze ridotte all’osso oppure no, oramai ce ne avevo per meno di un anno, se oltre a mangiare volevo pagare anche l’affitto, e le bollette dell’acqua, della luce e del gas, e se non volevo immusonire troppo Véronique. Bisognava passare all’azione. Quella mattina mi alzai prestino, per essere novembre inoltrato: un po’ prima delle nove e un quarto. Véronique andò avanti a dormire. Le rimboccai bene il piumone danese. Sarebbe stato un delitto, sprecare tutto quel tepore. La colazione, nell’intima penombra in cui si mescolavano la fioca luce filtrante dalle persiane socchiuse e quella sbrodolata giù dalla lampadina sotto la cappa aspiratrice, era il momento in cui avvertivo di più la mancanza, la condizione di orfano cresciutello. Per soffrire meno accendevo la radio sintonizzata sempre sulla Svizzera, e ascoltavo per loro. Cambiando gli orari, non sapevi mai cosa. Poteva esserci il gioco del rumore misterioso, o una bella canzone, oppure le previsioni dall’osservatorio di Locarno Monti, con le timide voci di Marco Gaia, o Fosco Spinedi, o Giovanni Kapenberger. Una delle poche cose che li avessero mai visti d’accordo: la mamma aveva una venerazione per la radio svizzera in generale, mentre papà era un grande appassionato di previsioni del tempo. Mi beccai il bollettino dei valichi alpini. Prestai attenzione ai nomi come se m’importasse davvero, come se avessi dovuto affrontarne uno in motocarro, o ne dovessi riferire.… innevati Bernina, Flüela, Forcola di Livigno, Forno, Gran San Bernardo, Grimsel, Klausen…Latte, müesli, cioccolato, formaggio dolce, marmellate, burro, succo di mela, mi sento svizzero anch’io, ho imparato a esserlo a Berna e in riva allo Zugersee, ero solo un bambino, porgevo noccioline agli scoiattoli e correvo al recinto del “bidióbidie” al Thier Park, mi venne spiegato che il bisonte non le voleva, le mie noccioline del cazzo, ma era lui, solo lui, il mio preferito. Adesso volevo essere uno scoiattolo.… Lucomagno, Julier, Maloja… Spluga, Susten, Umbrail… Equipag-giamento invernale obbligatorio per…Dopo una lunga doccia calda, provai a telefonare alla mia possibile fonte di guadagno. Lontano, alle pendici del Monte Nudo, un’infarinata di neve precoce sui boschi fogliopinti d’autunno. Per me, più evanescenti di un fiocco bagnato sul palmo d’una mano calda, non restavano che 4.000 ghelli e uno spunto invendibile. Invendibile ma preconizzante. Fin troppo. Al quarto squillo non avevi ancora risposto.

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