Nell’ambito di un’impostazione estremamente classica, che fa leva sugli stilemi visivi propri del “cinema d’altri tempi” avallati da un regista abile a cavalcare i generi con maestria e disinvoltura, si evidenzia l’attenzione rivolta alle inquadrature dei vari personaggi, sia al momento di accompagnarne l’entrata in scena, sia nelle soggettive volte ad individuare gli aspetti della loro personalità.
Ugualmente può scriversi per i particolari relativi al momento della partenza del treno (enfatizzati da una carrellata all’indietro) o alla sua corsa sui binari. Rimarchevole poi, la scioltezza con la quale si dipana l’intreccio narrativo all’interno di uno spazio ristretto (già evidente nell’opera d’esordio di Lumet, 12 Angry Men, La parola ai giurati, 1957).
Albert Finney
Diversamente che dal romanzo d’origine, Murder On The Orient Express pone, in guisa di prologo alla narrazione principale (che ha luogo nel 1935), un accadimento avvenuto 5 anni prima, il rapimento della piccola Daisy Armstrong, del quale furono testimoni la bambinaia, la cuoca, il maggiordomo e la cameriera, all’interno della villa dei suoi genitori, assenti per un viaggio.
Il riscatto richiesto fu prontamente pagato, ma la bambina venne rinvenuta uccisa. Si riuscì a consegnare alla giustizia l’esecutore ma non il mandante dell’efferato crimine, la cui scia di morte trovò presto altre vittime: la madre di Daisy, attrice, che morì per una emorragia conseguente al parto di un figlio prematuro, a sua volta nato morto, il padre, colonnello, suicidatosi, al pari della domestica Paulette, ingiustamente accusata di essere coinvolta nel rapimento.
Dopo tale antefatto, la narrazione si sposta sulla costa orientale di Istanbul, dove alcuni passeggeri si stanno imbarcando per raggiungere la stazione ferroviaria e proseguire il viaggio sull’Orient Express fino a Calais.
Fra questi vi è il famoso investigatore privato Hercule Poirot (Albert Finney), di ritorno a Londra, il quale troverà posto in carrozza grazie all’intervento del suo amico Bianchi (Martin Balsam), dirigente della Compagnie International de Wagon Lits.
Fiinney, George Coulouris, Martin Balsam e Lauren Bacall
Al secondo giorno di viaggio, con il treno bloccato in territorio jugoslavo causa una slavina sui binari, un passeggero, l’arrogante uomo d’affari Ratchett (Richard Widmark) viene trovato morto all’interno della sua cabina, assassinato con 12 pugnalate, come precisa il dottor Costantine (George Coulouris). Su richiesta di Bianchi, il quale desidera che il caso sia risolto al più presto, così da fornire una ricostruzione alla polizia, Poirot inizia le indagini, procedendo all’interrogatorio degli altri 12 passeggeri della carrozza per Calais, oltre che di Pierre Paul Michell (Jean Pierre Cassel), responsabile della vettura di prima classe. Tutti i viaggiatori appaiono allo stesso tempo moralmente irreprensibili e con qualcosa da nascondere, in particolare una volta che Poirot scoprirà la vera identità dell’ucciso: il nevrotico Hector McQueen (Anthony Perkins) e l’inneffabile Edward Beddoes (John Gielgud), rispettivamente segretario e maggiordomo della vittima; la caustica signora Hubbard (Lauren Bacall); l’insegnante Mary Debenham (Vanessa Redgrave); il colonnello Arbuthnot (Sean Connery); la principessa Natalia Dragomiroff (Wendy Hiller) e la sua cameriera Hildegarde Schmidt (Rachel Roberts); il conte (Michael York) e la contessa (Jacqueline Bisset) Andrenyi; Greta Ohlsson (Ingrid Berman), missionaria; Gino Foscarelli (Dennis Quilley), venditore di automobili; Cyrus Hardman (Colin Blakely), detective della Pinkerton in incognito.
Ingrid Bergman e Finney
Fra indizi sagacemente individuati e altri lasciati a bella posta, la soluzione, in duplice versione, non tarderà ad arrivare … Lumet dirige con fare divertito e divertente un film rispettoso delle pagine del giallo d’origine, in primo luogo nell’avvallare le linee del ragionamento deduttivo rivolto alla soluzione del crimine, senza tralasciare punte sarcastiche ed amare sulla disgregazione dei valori nella cornice di una “commedia umana” (non a caso Poirot cita Balzac nel corso della propria indagine).
Molto bella l’interpretazione offerta da Finney, il quale caratterizza il “suo” Poirot soppesando con accortezza una misurata e composta ironia, senso del camaleontico e qualche bizzarria (la rappresentazione dei vezzi culinari ed estetici propri del personaggio). Ciò che affascina della narrazione, almeno riporto la mia personale sensazione, è la rivelazione graduale dei caratteri all’interno di un ambiente necessariamente claustrofobico, dove la temporalità è rappresentata dall’attesa dell’arrivo dei soccorsi che possano garantire il proseguimento del viaggio. Il momento dei vari interrogatori, gustosamente intervallati, anche sfruttando una ricercata lentezza, è una vera e propria partita a tennis fra regia e recitazione, da godere a pieno nella versione originale, pur apprezzando il valido doppiaggio italiano.
Rachel Roberts e Wendy Hiller
Risalta così, fra le altre, la glaciale e mordace interpretazione offerta dalla Bacall, e, soprattutto, quella delineata da Ingrid Bergman, qui al suo terzo Oscar, come Miglior Attrice non Protagonista, anche perché offre qualche elemento risolutivo riguardo lo scioglimento dell’intricata matassa. Lumet ne asseconda l’andamento recitativo, girando la scena dell’interrogatorio di mademoiselle Ohlsson in un unico piano sequenza, offrendo così opportuno rilievo alla figura di una donna evidentemente sconvolta dall’aver subito un profondo trauma e le cui angosce esistenziali hanno trovato conforto a suo dire nella parola divina, che, spiega in un particolare inglese storpiato dalla lingua d’origine, l’ha spinta verso l’esperienza missionaria in Africa, a favore dei bambini disagiati. Riguardo il resto del cast, difficile non menzionare il particolare luccichio avvertibile nello sguardo di Vanessa Redgrave, la risoluta compostezza di Sean Connery, la raggelante eleganza espressa dalla Hiller nei panni della principessa Dragomiroff, o la perturbante psiche in affanno di Anthony Perkins.
Queste ultime saranno infatti due, una, suggerita e “pronto uso”, di comodo, da affidare alla giustizia propria dei codici, l’altra, più precisa e circostanziata, l’attuazione di un rituale vendicativo dal particolare sapore ieratico, da circoscrivere all’interno della capacità umana di autoassolversi.
Il risvolto inquieto ed angosciante proprio della sfrontata sicumera di aver comunque “fatto giustizia”, con tanto di brindisi finale liberatorio, è affidato allo sguardo, amareggiato e rassegnato in egual misura, del compassionevole giudice Poirot, autoproclamatosi sofferta entità determinatrice dell’umano destino.
Sui titoli di testa il treno, una volta liberi i binari dalla slavina, riprenderà il suo tragitto, al pari dell’esistenza di ciascun passeggero, l’animo ormai sgombro da ogni doloroso gravame del passato, ma con un presente ora tutto da vivere, all’insegna di una verità ricondotta nell’alveo di un oblio a lungo ricercato, idoneo a conferire inedito significato al personale incedere quotidiano.