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Asse Roma-Pechino: al via la collaborazione tecnologica e industriale con 18 grandi gruppi cinesi

Creato il 27 marzo 2012 da Wally26

Mi viene in mente una battuta di Beppe Grillo di qualche anno fa, che indicando un cartellone elettorale del PD che raffigurava la famiglia del futuro italiana, padre e madre italiani e bimbo cinese, disse di stare in guardia perche’ “quel bambino e’ il tuo futuro datore di lavoro“: mi sembra una profezia prossima ad avverarsi. D’altronde se l’Italia non prende in considerazione una seria riforma del lavoro e continua a contare solo sugli investimenti stranieri per fare ricerca in casa e creare occupazione, e se continua l’emorragia degli smantellamenti industriali con la relativa delocalizzazione all’estero, allora quello e’ il futuro. Io farei molta attenzione a stringere accordi commerciali di questo tipo con la Repubblica Popolare Cinese, specialmente nel condividere know-how tecnologico con questo campione dei diritti umani e della democrazia, che e’ la Cina. Non bastava che il mercato manifatturiero toscano fosse stato gia’ spazzato via dalla concorrenza illegale cinese? Ora vogliamo legalizzare lo scempio? Vogliamo svenderci alla Cina? Non prendiamo certe cose a cuor leggero…

Fonte: Il Corriere della Sera

Riforma dell’art. 18, ma ai cinesi non interessa

Il confronto con il ministero dello Sviluppo, l’attesa per la nascita di un’Agenzia per l’internazionalizzazione, la procedura ora veloce per i visti da Pechino. Eppure la riforma del lavoro è marginale.

Ide. Investimenti diretti dall’estero. Il tour asiatico del premier Mario Monti ha – tra le priorità – quella di incoraggiare gli investimenti da oltre-confine. E allora chi meglio dei cinesi, con il loro enorme surplus di bilancia commerciale? Tra le giustificazioni avanzate dal Quirinale sulla necessità di una riforma del lavoro finalmente capace di superare l’attuale carattere duale tra iper-tutelati e iper-marginalizzati c’è stato – appunto – il recente richiamo a una maggiore attrazione di investimenti esteri, sui quali peserebbe la presunta assenza di meccanismi di flessibilità in uscita. Non solo in tema di debito pubblico (come dimenticare il viaggio estivo dell’allora direttore del Tesoro, Vittorio Grilli, a caccia di investitori istituzionali capaci di attenuare il rischio sovrano dell’Italia in preda agli attacchi speculativi), ma soprattutto per investimenti di natura industriale capaci di rilanciare l’occupazione.

IL CASO HUAWEI - Illuminante in tal senso è il colosso delle telecomunicazioni cinese Huawei (interessato – si mormora – al dossier Wind per una maggiore integrazione tra i produttori di apparati e i gestori di rete di telefonia mobile) che ha recentemente inaugurato nel milanese un centro di ricerca sulle micro-onde scommettendo sul know-how degli ingegneri di casa nostra.

Ecco perché il recente incontro promosso da Invitalia – l’agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti – e alla presenza di Riccardo Monti (consigliere per l’internazionalizzazione del ministro allo Sviluppo Economico, Corrado Passera) scommette forte sull’asse Roma-Pechino, aprendo alla collaborazione tecnologica e industriale con 18 grandi gruppi cinesi. Nel ventaglio delle possibili partnership autentici colossi dell’energia come Harbin Electronic International, delle infrastrutture come Sedin Engineering, dell’automazione come Liu Gong Machinery, del real estate, dell’ingegneria e della chimica.

LA FLESSIBILITA‘ – E allora il quesito da porsi è se una maggiore flessibilità in uscita nel mercato del lavoro con una smobilitazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e la possibilità per le imprese di licenziamenti per motivi economici (indennizzando il lavoratore fino a 27 mensilità senza l’obbligo del reintegro) può attrarre i cinesi a investire nel nostro paese? Dice Giuliano Noci – prorettore del polo territoriale cinese del Politecnico di Milano – che la questione è marginale:

I cinesi sono estremamente interessati al nostro know-how. Vogliono investire sul valore aggiunto dei nostri prodotti e la riforma del lavoro è un aspetto secondario. Sono in realtà scoraggiati per la qualità delle nostre infrastrutture, per il gap con gli altri paesi europei del nostro sistema logistico, per la lentezza della macchina della giustizia che li penalizza in caso di contenziosi».

Considerazione condivisa anche dalla fondazione ItaliaCina, voluta da Cesare Romiti e nel cui consiglio di amministrazione figurano importanti gruppi assicurativi (Sergio Balbinot, Generali), bancari (Walter Ambrogi, Intesa Sanpaolo), industriali (Diana Bracco dell’omonimo gruppo, Alberto Bombassei, Brembo, Giampiero Pesenti, Italcementi): «La normativa sul lavoro – dice la fondazione – è una delle tematiche ma non la più importante anche perchè in Italia i cinesi non vengono per produrre ma soprattutto per servire l’export, acquisire marchi e tecnologia». In gergo operazioni di equity volte a rilevare il controllo delle aziende in difficoltà – un esempio, la Ferretti Yacht – che raramente si traducono in positive ricadute occupazionali per gli stabilimenti di casa nostra.

LA “PROMOZIONE INTEGRATA” – Ecco perché forse la questione-principe è quella che uno studio del Politecnico di Milano di un anno fa mise in evidenza e che si può tradurre nella mancata “promozione integrata” del nostro Paese in ottica cinese. Spiega Noci che il gap è tutto qui: «Siamo in ritardo soprattutto perché incapaci di descrivere in maniera omnicomprensiva il brand Italia. Decliniamo le nostre eccellenze in maniera regionalistica e manchiamo di efficienti strutture distributive in Cina capaci di veicolare le nostre eccellenze». Dell’articolo 18 e della possibilità degli investimenti cinesi in Italia nessuna parola. La “monetizzazione” del posto del lavoro è argomento non interessante nel principale paese manifatturiero al mondo. Semmai incide la burocrazia e la procedura complicata per il rilascio dei visti, ora con l’ambasciatore italiano a Pechino, Massimo Iannucci, «sensibilmente migliorata».


Filed under: Cina, Economia, Politica Internazionale, Politica Italiana

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