Attacchi di panico, quale terapia?

Da Renzo Zambello

C’è un acceso dibattito: qual è la terapia più adatta per curare gli attacchi di panico? E’ il risultato di una reale ricerca teorica e clinica o la difesa preconcetta di teorie?

 Giulia una ragazza di 25 anni si è rivolta a me per una psicoterapia circa un anno fa. Era già venuta circa tre anni prima, sempre per lo stesso motivo: ansia e attacchi di panico. Allora, la prima volta, avevamo fatto tre incontri poi, lei decise di sospendere dicendomi che avrebbe cercato qualche altra soluzione. “In fondo” disse, “non sto così male, posso tentare di farcela”. In effetti tentò, trovò un neurologo che gli diede degli antidepressivi e benzodiazepine.

Quando si ripresentò  dopo tre anni, gli chiesi come era andata e perché era tornata. Mi spiegò che le cure farmacologiche la sedavano, ma “si sentiva un’altra” e un po’ la intontivano, così le aveva interrotte dopo alcune settimane. Poi, per sei mesi aveva chiesto aiuto anche ad una psicologa che l’aveva aiutava ad affrontare le sue paure dandole delle prescrizioni quotidiane ma, lei disse: “Non funzionavano, non mi convincevano.”

Gli risposi: “Scusi ma non aveva funzionato neanche con me. Lei se ne era andata, perché mai dovrebbe funzionare ora?”

Risposta: “Perché ho bisogno, non ce la faccio più. Non riesco più a fare niente, non vado in metrò, non guido sulle autostrade, non entro nei negozi, non vado in nessun servizio pubblico, non vado in un bar da cinque anni, non salgo sull’ascensore, non vado oltre il secondo piano, non prendo l’aereo…”.

Alzai la mano per e chiesi: “Si, ma io come posso aiutarla?”

Risposta: “ Non lo so, mi ascolti.”

Io: “Si. La ascolterò.”

Per circa tre mesi arrivava con puntualità nonostante abitasse un po’ lontano dallo studio e non sempre riuscisse a farsi accompagnare. Mi raccontava che partiva con la sua macchina da casa molto prima del nostro incontro per bypassare il traffico di Milano e non fare le tangenziali. Percepivo la fatica che faceva ma la sentivo determinata. Con me aveva ottenuto che poteva dimostrare di farcela da sola e poi venire a raccontarmelo.

I suoi racconti iniziavano sempre con: “Lo sa dottore che oggi sono riuscita a fare..”

Capivo che dovevo ascoltarla e gratificarla, così come fa il genitore col figlio che si sperimenta e vuole sentirsi dire “bravo”. Vedo oggi, a casa mia, la mia nipotina quando dice al padre: “Lascia, faccio io,” e poi “hai visto che ce l’ho fatta?” Così, era questo, ciò che mi chiedeva, ma perché e, cosa aveva a che fare questo suo bisogno, con gli attacchi di panico? Non lo sapevo ma, ascoltavo.

Un giorno mi disse: “ Sa dottore, mi piacere tanto andare a casa del mio ragazzo per alcuni giorni, ma non posso. E’ un peccato, ha la casa libera ma, non ce la faccio. Abita al terzo piano. ”

“Scusi,” le chiesi, “Ma lei a che piano abita?”.

Giulia: “Al terzo.”

Io: “Beh! Non capisco.”

E lei, stropicciandosi la faccia, quasi a nascondersi: “ E’ che quelle scale mi fanno venire in mente, le scale di casa mia, quando di notte scappavo giù con mia sorella, mentre mio padre ubriaco dopo avere picchiato la mamma ci rincorreva e, una notte, non ce l’ho fatta e, lui mi ha raggiunto…” Silenzio. Giulia piangeva e continuò: “Io da allora ho sempre paura, quando non c’è una via di fuga. Non mi fido”

Io: “Si, capisco.”

Lei si stringe le spalle, mi guardò e mi dice: “Posso farcela?”

Io: “ Certo, assieme.”

Giulia mi raccontò come lei programmasse tutto il giorno con la sorella le vie di fuga quando il padre fosse tornato ubriaco. Con me misurava i suoi successi e come uno sportiva si programmava una meta: sempre un po’ di più.

Mi diceva: “Si, sento ancora un po’ di paura ma capisco che miglioro giorno dopo giorno. Ormai so che ce la posso fare. Lei mi aiuta vero? Lo sa che mi porto sempre le gocce in tasca. Non le uso quasi mai ma, mi danno sicurezza. Se mi sento troppo ansiosa, mi prendo cinque gocce sotto la lingua. Però, non lo faccio quasi più.”

Credo che Giulia mi abbia insegnato molto. In fondo è lei che si è costruita la sua terapia. Ha rifiutato ogni approccio terapeutico settoriale e preconfezionato a cominciare dal mio, tre anni prima, quando forse le dissi: “Senta io faccio psicoanalisi. Il suo sintomo, gli attacchi di panico, lo considero solo la punta di un iceberg. Mi interessa quello che ci sta sotto”. E lei, giustamente se ne era andata. Ma neanche il neurologo che pensava di risolvere tutto con la pastiglietta l’ha aiuta e così pure, la collega comportamentista che cercava di desensibilizzarla. Lei voleva altro. Voleva recuperare, sperimentare un rapporto con un “padre” che la capisce, gratificasse.

Mi si dirà che questo è contro la teoria e la tecnica della psicoanalisi? Si, è chi se ne importa? E’ ciò che serviva a Giulia. Mi si dirà che ha mantenuto uno stato nevrotico. Può darsi, e chi non ha le sue nevrosi “funzionali”? Giulia mi ha insegnato soprattutto una cosa: gli attacchi di panico, questa sindrome dove psiche e corpo si uniscono ed esprimono un sintomo potentemente distruttivo hanno bisogno di risposte terapeutiche poliedriche. E’ assurdo palare di terapia dinamica, comportamentale, farmacologica e difenderle come “verità di fede”. La terapia giusta è quella che aiuta quel paziente, in quel momento a guarire.

E non c’è modo di saperlo se non facendo quello che suggeriva Giulia: ascoltare

di  Renzo Zambello

Video: Attacchi di Panico e Psicoterapia

http://www.youtube.com/watch?v=NPv-QP8BTYQ&feature=share

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Tags: ansia, attacchi di panico, psicoterapia


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