Guardano tutto, seguono tutto, e giudicano tutto. Non sono i soli. Pure chi dell’arte di edificare non capisce nulla rimane con lo sguardo fisso su di me. Preferiscono guardare me piuttosto che lo spettacolo che hanno ancora sotto gli occhi.
«È un lavoro come un altro». Me lo dico tutte le volte in cui la scena si ripete, «è solo un lavoro come un altro», e me lo dico più e più volte per superare quell’assurdo imbarazzo da palcoscenico che mi prende quando gli occhi di quasi tutti sono puntati su di me.
Guardano me per non guardare altro, lo so. Seguono i miei gesti per non dover più guardare chi da qualche ora, troppo immobile per aggiungere novità, è al centro dell’attenzione, ma questo non toglie peso al mio ruolo, non lo allevia, non gli toglie responsabilità, anzi, semmai le aumenta, come se la riuscita del tutto dipendesse da me e da ciò che faccio e non da ciò che finora è stato o da chi dovrebbe essere ancora tra i protagonisti principali. Sono messo alla fine del rito, e di tutte le cose, si sa, ci si ricorda di come cominciano e di come finiscono. Quello che sta nel mezzo non ha troppa importanza e se ne ha scompare di fronte a un brutto inizio o, peggio, a un brutto finale. I prologhi e gli epiloghi, l’inizio e la fine sono tutto ciò che resta: tra «nel mezzo del cammin di nostra vita» e «quindi uscimmo a riveder le stelle» a chi interessa veramente del peregrinare sotterraneo di quel tizio accompagnato a un morto? Troppo lungo come viaggio, pure noioso, a tratti. E invece un bell’inizio, e ancor più una bel finale, e il gioco è fatto: best seller a scadenza illimitata!
Guardano me dunque, la maggior parte di loro almeno, i comprimari, le comparse stanche, e lo fanno con attenzione. Qualcuno, lo so, giudica anche, magari un collega, uno del mestiere, uno che come me rovista tra calce e mattoni.
Sono gli sguardi peggiori.
Li sento incollati addosso. Seguono i miei movimenti attimo per attimo, non perdono un gesto, gli occhi fissi alle mie mani e a ciò che fanno. Valutano il modo in cui rovisto nel secchio a mescolare l’impasto, se aggiungo acqua ad ammorbidire sorridono sarcastici, perché avrei dovuto farlo prima, o avrei dovuto farlo meglio, o qualsiasi altra cosa gli venga in mente: con loro, ne sono certi, non ce ne sarebbe stato bisogno! Tutto sarebbe stato già preparato nel migliore dei modi per il grande atto finale e avrebbero evitato quel gesto che appare ai loro occhi come un sintomo di insicurezza.
Seguono, vedono, e giudicano tutto.
Il mio prendere la malta con la cazzuola, quanta ne prendo, se è troppo liquida o se è troppo asciutta. Il modo in cui la poso, quanta ne cade, quanto ferma sta, quanta ne raccolgo dopo averla posata. Il mio afferrare il mattone, dal lato corto, con la mano sinistra, se il mio polso è fermo, se esita o se va sicuro nel gesto. E gli spazi che lascio tra un mattone e l’altro, il modo in cui chiudo la sequenza, la velocità e la precisione nel tagliare chi va a chiudere la fila.
Guardano tutto, seguono tutto, e giudicano tutto.
Non sono i soli. Pure chi dell’arte di edificare non capisce nulla rimane con lo sguardo fisso su di me. Preferiscono guardare me piuttosto che lo spettacolo che hanno ancora sotto gli occhi.
Sono stanchi, provati. Dall’odore di incenso che gli si è insinuato nelle narici mentre seduti sugli scranni della chiesa non riuscivano a staccare la vista da quell’oggetto lugubre per definizione a pochi passi da loro, mentre un uomo in paramenti sacri declamava parole per molti incomprensibili, ripeteva gesti vecchi di millenni senza preoccuparsi di far sapere, né prima né dopo, il perché, coadiuvato in questo da adolescenti disinteressati e attenti solo a compiere la loro parte di serventi.
Da quell’altro odore, pungente, di cosa morta, di fiori bianchi e gialli la cui vista ingentiliva il tutto, la cui effettiva bellezza è rovinata per via di quella infausta associazione con l’ultimo viaggio. Dalle corone e dai nastri, su cui si sono sforzati di leggere frasi sperando di coglierne qualcuna che non fosse banale. Dalle parole di circostanza, quelle che non si vorrebbero mai pronunciare e finiscono, sempre, per non essere pronunciate, perché in questi momenti non c’è nulla in verità da poter dire che non risulti artefatto e solennità interviene a farlo ricordare. Dallo spettacolo di lacrime che lente rigano volti, di donne piangenti, di uomini affranti, di bambini inconsapevoli, e di gente compita, la maggioranza, raccolta in dolore di prammatica. E poi provati dal nero, nei vestiti e nei paramenti che accompagna il tutto, che accompagna il lutto. Dalle note di arie tristi risuonate da voci tremule in cui si affermava di credere in ciò che invece è una speranza; dal passeggiare successivo ad accompagnare, lento, silenzioso per necessità, in cui i ricordi si sono mischiati ai pensieri e i pensieri sono diventati veggenze da scacciare. Dal varcare i cancelli di un luogo inquietante nella sua sacralità, dallo scorrere di centinaia e centinaia di nomi scomparsi, dalla fatica di scacciare ciò che portano alla mente e ricordano con la loro presenza, fissa, sui marmi lucidi. Dall’accompagnare poi con lo sguardo, arrivati al luogo ultimo, in quella che sarà dimora per lungo tempo, dal vedere il caricare a spalla, l’appoggiare insicuro sul bordo del vano, lo spingere a fondo a riporre, via. Dalla pesantezza, greve come si conviene, dell’ultimo commiato, dove tutto si alza di un tono per poi ridiscendere, veloce come era salito, per assistere poi (finalmente) all’ultimo atto, quello finale.
A me.
A me, e alle mie mani che prendono mattoni e li posano, versano malta e la aggiustano, un gesto dopo l’altro, un mattone che segue l’altro, in un gesto ripetuto, non infinito, sempre uguale, che deve essere sempre uguale, sto attento in questo, prendo un ritmo e lo inseguo, compongo musica invisibile, cadenze regolari, attento, preciso, sicuro, per non rovinare l’armonia del momento, per non rovinare quello che finora è stato.
Gesto dopo gesto, movimento dopo movimento, mattone dopo mattone occludo la vista. Allontano visioni, scaccio pensieri. Alleggerisco animi.
«È un lavoro come un altro» mi dico, sempre, venendo via.
Originario dell’Alta Irpinia, a nove anni Rouge viene trapiantato contro la sua volontà in Piemonte, cosa dalla quale non si è ancora ripreso del tutto. In ambito letterario, dopo aver fallito il tentativo di essere il Miglior Giovane Esordiente, attende con ansia la vecchiaia per poter tentare di diventare il Miglior Esordiente Anziano. Nel frattempo scrive cose che nessuno legge e che lui per dispetto non finisce, imbratta blog di varia natura e traffica disperatamente in fumetti.
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Illustrazioni di Dave McKean