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Attualità e inattualità del pensiero di Marx: totalità, scienza e dialettica/1

Creato il 26 settembre 2013 da Criticaimpura @CriticaImpura
Un fotogramma di Metropolis

Un fotogramma di Metropolis

Di CLAUDIO VALERIO VETTRAINO

E’ arduo analizzare ciò che “di vivo o di morto” c’è nell’opera di Marx. Un’opera complessa e monumentale che ha attraversato i secoli e le generazioni, rappresentando per il movimento operaio internazionale la bussola organizzativa e strategica. Un filo rosso che dura ancora oggi e che fa da movente a tentativi di ricostruzione di fantomatici partiti del lavoro o fronti sociali di liberazione dalla servitù salariata. Gruppi o gruppuscoli intellettuali si richiamano a lui; tentativi oggi in atto per renderlo un “classico”, l’icona stessa di un passato che non deve tornare (come se lo stesso Marx fosse responsabile diretto e non a sua volta vittima strumentale dei disastrosi esperimenti di socialismo reale) e allo stesso tempo di una probabile ricomposizione epistemologica di un presente che ci sfugge, di un caos che ci attanaglia, di una crisi che mostra lati più oscuri della globalizzazione neo-liberista.

Ed è curioso come il Marx ufficializzato dall’establishment sia in sé duplice e scisso. Il Marx “scienziato” dell’economia politica da rielaborare alle luce delle inedite trasformazioni epocali che stiamo vivendo e il Marx politico-rivoluzionario da gettare alle ortiche.

Un’operazione ideologica, quella di scindere Marx in due tronconi del tutto incomunicabili, che non tiene assolutamente conto della dialettica che segna ed opera in tutto il suo pensiero. Da buon hegeliano, per Marx era impensabile considerare la politica senza l’economia. L’universale senza l’individuale. La storia senza la natura. L’uomo senza il suo lavoro. Il denaro e la merce senza profitto e il profitto a sua volta senza alienazione né sclerotica reificazione di tutto ciò che di umano c’è al mondo.

Ed ecco che la prima, grande innovazione marxiana – in realtà derivata da Hegel e che Lukàcs rimarcò con forza [1] – risiede nell’analisi totalizzante di una realtà totalizzante, organica, non scindibile nelle sue parti, ma in cui le parti si fanno totalità, sono il tutto che contribuiscono a determinare con le loro interazioni reciproche [2].

La categoria di totalità storica concreta è il primo punto da cui ripartire per ricostruire la pregnanza epistemologica del pensiero marxiano. Non possiamo comprendere l’attuale crisi del sistema capitalistico mondiale, senza riandare alle tesi, esposte da Marx con lucidità esemplare nei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, in cui analizza i nessi dialettici che legano indissolubilmente produzione-circolazione-distribuzione e consumo. Infatti: “La produzione produce gli oggetti corrispondenti ai bisogni; la distribuzione li ripartisce secondo leggi sociali; lo scambio ridistribuisce il già distribuito, secondo il bisogno individuale; nel consumo, infine, il prodotto esce fuori da questo movimento sociale, diviene direttamente oggetto e servitore del bisogno individuale e lo soddisfa nel godimento. In tal modo la produzione si presenta come punto di partenza, il consumo come punto finale, la distribuzione e lo scambio come il punto intermedio, il quale è a sua volta duplice, in quanto la distribuzione è determinata come il momento che proviene dalla società, e lo scambio come il momento che proviene dagli individui. Nella produzione la persona si oggettivizza, nella persona l’oggetto si soggetti vizza; nella distribuzione la società, sotto forma di disposizioni generali e imperative, si assume la mediazione tra produzione e il consumo; nello scambio, questi vengono mediati dalla determinatezza accidentale dell’individuo [3].”

Poco dopo Marx chiarifica ulteriormente questo ginepraio: “La produzione è dunque immediatamente consumo, il consumo immediatamente produzione. Ciascuno è immediatamente il suo contrario. Al tempo stesso, tuttavia, tra i due si svolge un movimento di mediazione. La produzione media il consumo, di cui crea il materiale e al quale senza di essa mancherebbe l’oggetto. Ma il consumo media a sua volta la produzione, in quanto solo esso procura ai prodotti il soggetto per il quale essi sono prodotti. Il prodotto riceve il suo ultimo perfezionamento soltanto nel consumo [4].”

Ma dobbiamo stare attenti a non idealizzare questi momenti, perché ciò ci impedirebbe di vedere che “il risultato al quale perveniamo non è che produzione, distribuzione, scambio, consumo siano identici, ma che essi rappresentano tutti delle articolazioni di una totalità, differenze nell’ambito di un’unità [5]Da tutto ciò risulta non solo la natura storicamente dialettica della formazione economico-sociale capitalistica, ma la verifica inconfutabile che, nell’era del capitalismo finanziario globale dominato da trust transazionali, non esistono né possono esistere, crisi parziali [6]. Ogni crisi parziale di un settore parziale, investe inevitabilmente, come la crisi del ’29 dimostrò, tutti i reparti e i settori produttivi e con essi quelli bancari e finanziari che li sostenevano. Come non esistono crisi di “rappresentanza politica” senza la relativa decostruzione di un modo specifico di produzione, senza il declino del sistema economico a cui fa riferimento. Un esempio di questo, fu il famoso biennio ‘90-‘91 (pari per i riflessi geo-politici ad una terza guerra mondiale non combattuta), in cui alla crisi e dissoluzione dell’Unione Sovietica e della politica dei blocchi, corrispose conseguentemente la decostruzione progressiva ed inevitabile di tutto un sistema di potere e di alleanze che aveva rappresentato quella spartizione mondiale.

La realtà dunque è una totalità dialettica concreta come avrebbe detto Karel Kosik [7], e come tale va studiata in profondità. Ciò ci permette inoltre di prendere in prestito Marx, per criticare tutte le forme, più o meno opportune, più o meno interessate, di apologia diretta o indiretta del modo di produzione capitalistico e del neo-liberismo. E’ alquanto curioso evocare un capitalismo buono distinto da uno cattivo. Gridare alle regole, a nuove e razionali legislazioni che diano finalmente ordine ai mercati o ne controllino gli effetti deleteri, ne frenino “politicamente” gli abusi e le aberrazioni è la vera utopia, direbbe Marx, dei nostri tempi. La misura del livello mediocre e anch’esso caotico ed irrazionale dei teorici della borghesia, dei  cosiddetti analisti del mercato: “Secondo loro – vedi ad es. J. S. Mill – la produzione, a differenza della distribuzione, ecc., va rappresentata come inquadrata in leggi di natura eterne ed indipendenti dalla storia, nella quale occasione poi, rapporti borghesi vengono interpolati del tutto surrettiziamente come incontestabili leggi di natura della società in abstracto [8].”

Le forze politiche nel sistema capitalista, e questo Marx lo spiega chiaramente, non sono altro che espressioni di determinati interessi economici e produttivi, finanziari e bancari. I parlamenti e i governi, sintesi dialettica degli interessi medi dei poliedrici interessi delle varie frazioni della borghesia. Le garanzie, evocate ricorrendo alla “salvezza” mistica delle carte costituzionali (la vera rivoluzione sentenziava il PCI negli anni ’50 e ’60, sta nella sua piena ed oggettiva attuazione) non sono altro che la certificazione ideale – che ha avuto, beninteso, una funzione materiale decisiva nell’imporsi storico della borghesia – di un’eguaglianza reale solo nel cielo astratto del diritto.

Un orizzonte solo apparentemente sgombro da nubi sotto il quale la diseguaglianza reale degli uomini concreti vive e prospera come non mai: “Ogni forma di produzione genera i suoi peculiari rapporti giuridici, la sua peculiare forma di governo ecc. La rozzezza e la genericità stanno proprio nel fatto di porre in una relazione reciproca accidentale cose che sono connesse organicamente, di ridurle cioè ad una mera connessione nella riflessione. Gli economisti borghesi vedono soltanto che con la polizia moderna si può produrre meglio che, ad es., con il diritto del più forte. Essi dimenticano soltanto che anche il diritto del più forte è un diritto e che il diritto del più forte continua a vivere sotto altra forma, anche nel loro “Stato di diritto” [9].”

E’ dunque tipico, asserisce Marx, di chi si pone al di là delle necessità oggettive della lotta di classe, proiettandosi idealisticamente al di là dell’orizzonte stesso della storia, abbaiare alla luna di una politica [10], di un cretinismo parlamentare [11], come sterile palliativo alle contraddizioni strutturali del modo di produzione capitalistico. Non solo la “politica” non può rappresentare da sola la soluzione (dietro di essa ci vorrebbe la ricostruzione di una soggettività operativa e di un’utopia concreta su cui riformulare un vocabolario-linguaggio critico all’altezza dei tempi) ma è essa stessa una parte non trascurabile del problema.

Totalità dunque ma totalità che ha bisogno di una concretezza, di un ricorso alla materialità dell’esistenza e dell’essere sociale come pilastro fondamentale. Ed è per questo che l’attualità teorico-pratica di Marx risiede precisamente nella rivoluzione copernicana da lui, assieme ad Engels, concepita e portava a termine. Una rivoluzione epistemologica radicale, una rottura netta con l’idealismo tedesco che l’ha posta in essere [12], attraverso cui comprendere finalmente che la storia non va studiata a partire dalle idee, dalle impressioni che vegetano nella pigra coscienza degli uomini, nei loro luoghi comuni, nelle ideologie che ne deformano la visione oggettiva dei processi reali che vivono quotidianamente. Lo stesso Marx, nell’incipit dei Lineamenti, non lascia adito a dubbi: “Oggetto della nostra analisi è anzitutto la produzione materiale. Il punto di partenza è costituito naturalmente dagli individui che producono in società – e perciò dalla produzione socialmente determinata degli individui [13].”

Occorre partire dai rapporti sociali attraverso cui gli uomini storici producono e riproducono la ricchezza sociale, dalle forme e strumenti produttivi utilizzati, dal livello medio di produttività di un paese, dai dati materiali dell’esistenza. Solo così è possibile analizzare scientificamente le caratteristiche e le trasformazioni oggettive di un organismo sociale giunto a un determinato grado del suo sviluppo. E solo così è possibile comprendere la nascita e il germogliare nelle masse ideologie e psicologie, comportamenti individuali e collettivi, gli istinti religiosi, le mode, i gusti e le paure inconsce. Il rapporto ovviamente è dialettico. La struttura e la sovrastruttura, usando le espressioni di Marx ed Engels, si condizionano a vicenda. Il lavoro determina la coscienza sociale e la coscienza sociale determina, condiziona le forme della produzione e del lavoro. Spesso, ed è storia dei nostri giorni, le forme politiche non riflettono immediatamente, meccanicamente, le dinamiche economiche, le trasformazioni produttive, la creazione di trust e mercati comunitari [14].

La realtà è irriducibile al pensiero. Non si esaurisce del tutto e non si sottomette mai integralmente alle forme del pensiero e della scienza che la imbrigliano in leggi di movimento, in oggettiva ma mai dogmatica reiterabilità. La realtà è infinita e muta all’infinito, assumendo forme talvolta imprevedibili, inspiegabili e misteriose. Ed è per questo motivo che fare scienza della società è impresa ardua e titanica. Non è assolutamente facile dare “ordine”, regolarità legislativa al caos. E’ molto più semplice fare scienza di un fiore, di un insetto, di un fenomeno fisico-atmosferico, piuttosto della macchina più complessa ed enigmatica che esiste in natura; l’uomo.

Ma sta proprio qui l’attuale superiorità del metodo marxiano, rispetto al vuoto formalismo delle categorie pure a-priori kantiane, l’autocoscienza del Soggetto-Idea hegeliano e l’astrattezza naturalistica dell’economia politica classica: “Agli occhi dei profeti del XVIII secolo, sulle cui spalle poggiano ancora interamente Smith e Ricardo, questo individuo del XVIII secolo – che è il prodotto , da un lato, della dissoluzione delle forme sociali feudali, dall’altro, delle nuove forze produttive sviluppatesi a partire dal XVI secolo – è presente come un ideale la cui esistenza sarebbe appartenuta al passato. Non come un risultato storico, ma come il punto di partenza della storia. Giacché come individuo conforme a natura, o meglio conforme all’idea che essi si fanno della natura umana, esso non è originato storicamente, ma è posto dalla natura stessa [15].”

L’obiettivo di Marx, portato avanti per tutta la sua vita, è quello di costruire una metodologia epistemologica complessiva, totalizzante, attraverso cui fare “scienza della storia” in quanto scienza dell’organismo sociale in movimento dialettico con se stesso. Per dirla con della Volpe [16], applicare il metodo fisico-naturale galileiano al moto quotidiano della mondanità umana, per rintracciare nel suo divenire solo apparentemente caotico e disorganico, fluttuante ed atomistico, le leggi oggettive del suo funzionamento. Partire dall’osservazione del processo concreto, estrapolare-dedurre da esso un’ipotesi concreta di lavoro e verificare tale ipotesi in relazione diretta con la prassi oggettiva. Se ciò è vero, risulta altrettanto veritiera la convinzione, incrollabile in Marx e Lenin, che sia solo il laboratorio della storia, e non le pigre idee degli accademici, ha dimostrare la validità, l’omogeneità ai fatti, al divenire dialettico della realtà, della teoria marxiana. La comune di Parigi e la rivoluzione russa sono lì a testimoniarlo [17].

In questa dimensione, le categorie marxiane di merce, denaro, classe, mercato, valore, lavoro, stato, politica, e via discorrendo, non sono semplici intuizioni geniali della mente di Marx ed Engels. Ma viceversa, astrazioni scientifiche, impresse ed rielaborate nella coscienza di Marx ed Engels dal movimento stesso della storia, successivamente dimostrate al suo cospetto. La storia per Marx ed Engels non è un semplice dibattito tra idee. Se fosse così, disse Marx, il comunismo scientifico avrebbe già “vinto” da secoli. La storia è lo scontro oggettivo di forze politiche ed economiche in lotta perenne tra loro per far valere i propri “diritti” [18]. Ed è in questo angusto crinale che la battaglia “comunista” deve sapersi inserire e parlare ai soggetti interessati. Anche se il mito sociologico della società “liquida”, della fine della storia, delle famose “convergenze parallele” promosse dall’interclassismo, ci hanno da decenni abituati e convinti del contrario. Già in Marx, secondo Lenin, vi era la precisa convinzione che il comunismo non vincerà come un bel ideale da imporre dall’alto al mondo intero. Non bisogna convincere le masse della necessità storica del comunismo. Ma sarà la contraddizione principale del sistema capitalistico tra una produzione sempre più socializzata (globale) ed appropriazione del profitto (nelle mani di un centinaio di grandi trust mondiali) sempre più individuale, assieme alle crisi sempre più acute e violente, che porranno le condizioni per la presa di coscienza della necessità del passaggio a una forma “superiore”, finalmente razionale e razionalizzata di produzione sociale.

L’umanità ritornerà a sé infatti soltanto dopo essersi alienata nel capitalismo, nella sua mercificazione alienante, come ente allo stesso tempo naturale e sociale.

[FINE PARTE PRIMA]


[1]  Cfr. su questo G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, Sugar, Milano 1967

[2] Cfr. su questo K. Marx, Lineamenti fondamentali per la critica dell’economia politica, 2 vv., a cura di Enzo Grillo, Nuova Italia, Firenze 1968.

[3] Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, a cura di Enzo Grillo, vol. I., Nuova Italia, 1968, cit., p.12

[4] Ivi, cit., p.12

[5] Ivi, cit., p.25

[6] Il paradosso è che la crisi globale che stiamo vivendo, in quanto “ridefinizione” strutturale delle capacità produttive dell’intero complesso sociale (con il venir meno della centralità del Welfare Occidentale e del lavoro come ricambio organico uomo-natura), dimostra come sia la dirigenza borghese (istituzionale) che la classe operaia (mondo del lavoro), non siano assolutamente “all’altezza” (omogenee, adeguate) al piano di ristrutturazione del capitalismo mondiale. Dialetticamente, come elementi oggettivi del processo, ne sono tuttavia estranei. Sembra, come riflesso ideologico, che il capitale non sia altro che un meccanismo dinamico “autonomo” ed indipendente dai suoi elementi basici, astratto dalle sue stesse contraddizioni immanenti, dai rapporti di forza che esprime in quanto relazione sociale storicamente determinata tra forze produttive e salario. Il vantaggio, è che la crisi pone l’interdipendenza tra capitale e lavoro e la coscienza della lotta di classe, come due fenomeni oggettivi ed ineluttabili, squarciando le pesanti nubi ideologiche sulla loro dipartita.

[7] Karel Kosik, Dialettica della totalità concreta, Bompiani Milano 1963

[8] Ivi, cit., p.9

[9] Ivi, cit., p. 11

[10]Un mediazione “istituzionale” ormai del tutto inutile, dato che le forze borghesi stesse scendono direttamente “in campo” per difendere i loro interessi nell’agone politico.  Basti pensare alla lista per Monti dei vari Montezemolo e co. Ma ciò non deve indurre a considerare lo stato, il parlamento e il governo come entità anonime, astratte, ormai condannate al declino e all’inutilità. Sarebbe un grossolano errore di semplificazione meccanicistica, come tende a fare Grillo. Il fatto che le forme del potere e della rappresentanza mutino, assumano ruoli e connotati diversi in relazione alle diverse esigenze strategiche della borghesia mondiale (controllo e gestione diretta del potere e della produzione e delle politiche fiscali e di previdenza, ecc, già osservata da Nicos Poulantzas negli anni ’70 in Francia durante il Neo-gollismo) non significa la loro abdicazione o il loro progressivo esautoramento, preconizzando  addirittura lo spazio per una democrazia “diretta”, dal basso e orizzontale. La realtà e le stratificazioni di classe, sociali e psicologiche sono molto complesse e difficili da scalfire.

[11] Sintomo per Marx di una vera e propria malattia. Quella cioè di ipostatizzare feticisticamente l’attenzione solo sulle schermaglie parlamentari, sulle correnti, sui personalismi dei vari leaders, come fossero il centro del mondo, impendendosi di alzare lo sguardo sul mondo. Sulle immani ed epocali trasformazioni (declino dell’atlantico ed ascesa del pacifico) che abbiamo di fronte. Come se la complessità del mondo si riducesse al pingue dibattito o alle “risse” da bar tra capi popolo (senza più popolo) ormai traslate dai polverosi banchi del “palazzo” ai vari talk shows, senza riuscire più a cogliere le forze materiali, i processi oggettivi globali, che determinano lo sviluppo stesso della società e del modo di produzione capitalistico. Vi è dunque un’astrazione determinata, direbbe della Volpe, che tende a scindere la dialettica (spuria ed avulsa dalla storia) parlamentare dalla dialettica oggettiva delle forze in campo che la pongono in essere. Un feticismo (vedere il dito per non vedere la luna) tipico prodotto della reificante alienazione della formazione economico-sociale capitalistica.

[12] Ed è per questo molto curiosa l’operazione portata avanti da Fusaro nel descrivere un Marx “scienziato” idealistico. Due termini che rappresentano un vero e proprio ossimoro. Dove vi è scienza, ovvero elaborazione di un’astrazione determinata e verifica empirica di tale ipotesi a diretto contatto con la prassi oggettiva, insomma “metodo galileiano” applicato al mondano direbbe della Volpe, non può trovare spazio la dipendenza dell’essere da un principio alieno extramondano a cui fa costante riferimento. Da un lato la realtà è indipendente dal pensiero-coscienza, è irriducibile ad esso e dall’altro è perniciosamente dipendente e legata – religiosamente (in senso di religio) – ad un entità superiore, metafisica, che la pone in essere come sua diretta emanazione terrena. L’idealismo, per dirla con Colletti e Mario Dal Pra, non è altro che la certificazione della limitatezza dell’essere, la sua non autonomia rispetto all’autocoscienza spirituale dell’Idea. Ne L’ideologia tedesca infatti Marx ed Engels compiono un vero e proprio “parricidio” nei confronti di tutta la tradizione idealistico-filosofica occidentale e non solo tedesca. Con buona pace di Roberto Finelli. Sta qui, la loro vera ed autentica rivoluzione copernicana. Rimettere finalmente il mondo “sui piedi”. Partire dai dati reali dell’esistenza e non dalle sue proiezioni ideali (invertite) nella mente degli uomini.

[13] Ivi, cit., p.7

[14] Vedere ad esempio la crisi di un Europa che da mercato economico-finanziario comune, non riesce a farsi voce politica, estera, militare comune. Al piano strutturale non corrisponde mai meccanicamente il piano sovrastrutturale. Anzi, c’è sempre una spaccatura tra i due piani. E il marxismo è proprio la scienza che colma e dimostra questo iato, ne dà visione e coscienza totale. Marx ebbe a dire: “se la forma e la sostanza dei fenomeni fossero tutt’uno non ci sarebbe bisogno di scienza.”

[15] Ivi, cit., pp. 4-5. Cfr. inoltre sui limiti ideologici fondamentali dell’economia politica classica, le illuminanti pagine di Teorie sul plusvalore, Editori riuniti, Roma 1993

[16] Cfr. Galvano della Volpe, Logica come scienza storica, Roma, 1949

[17] Quelle poche volte che Marx parlò della società comunista, lo faceva sempre con enorme imbarazzo, proprio perché, da scienziato, non poteva fare previsioni su di un mondo ancora avvenire, da costruire. E’ per questo che intitolò la sua opera più importante Il capitale e non Il comunismo. Ma appena vide la comune di Parigi, l’opera straordinaria della classe operaia parigina, le sue forme di autogestione e di pianificazione collettiva della produzione, capì che era quella la forma politica “compiuta” (per quei tempi) del dominio, di quella che chiamò “la dittatura del proletariato”, il passaggio dal dominio dell’uomo sull’uomo alla gestione razionale delle cose per i bisogni umani.

Sempre in riferimento all’epos della Comune, Engels ne L’Anti-duhring parlò dell’estinzione della macchina statale, della sua burocrazia, dell’esercito sostituito dalla milizia popolare, della politica come gestione di una lotta di classe ormai superata con il superamento della divisione in classi della società. Il primo germe insomma di società socialista. Un epos storico che arrivò fino a Lenin e che riempì i capitoli più interessanti di Stato e rivoluzione. Il filo rosso che lega la comune alla Rivoluzione russa sta proprio in quella forma politica, in quel potere costituente (che non si esaurisce mai nel suo potere costituito) che la comune di Parigi provò fosse possibile ed attuabile. La comune non è altro che la verifica pratica, storicamente determinata dal movimento reale, dalle oggettive contraddizioni capitalistiche (la guerra franco-prussiana portò milioni di proletari sotto le armi, rendendoli con ciò pericolose sostanze infiammabili, così come la prima guerra mondiale sul fronte orientale), delle ipotesi scientifiche formulate da Marx ed Engels molti decenni prima. Non vi è in loro una pura e semplice autocoscienza di un fenomeno avulso dalla storia così come si affrettavano ad ipotizzare i socialisti utopisti. Ma la necessità di partire dal’analisi della realtà e ritornare ad essa dopo la verifica pratica della stessa. Ciò dimostra che il marxismo definito da della Volpe come “galileismo morale” , astrazione determinata, circolo C-A-C, risulta ancor oggi attuale, seppur alle volte schiava di arrugginiti formalismi ed eccessive forzature ideologiche. Estremizzazioni che vanno certamente rimosse in relazione alla fase attuale, ai soggetti politici e alle forme di relazione oggi in campo.

[18] E’ lo stesso Marx, in alcuni suoi famosi passi, ad asserire senza alcuna incertezza, che lo scontro tra lavoro e capitale, tra la vendita della forza lavoro in cambio della sua remunerazione salariale, non sia altro che uno scontro storico tra forze di “diritto” riconosciute e sancite dalla legge. Il capitalista ha il diritto di comprare la merce forza-lavoro a prezzo di mercato (in base alla zona in cui produce) e il lavoratore ha il diritto (in base alla sua “libertà” dettata dallo stato di diritto e dall’eguaglianza formale sancita dalla costituzione) di vendergliela o di rifiutare, scegliendo un altro acquirente a lui più conveniente. Non vi è, in teoria, nel cielo astratto (ma reale, effettivo) del diritto, nessuna costrizione. Sono precisamente due soggetti giuridici, autonomi ed indipendenti, che si confrontano nell’agone sociale, in quel rapporto di produzione sociale, collettivo, storicamente determinato che è il capitalismo. Uno scontro giuridico però, asserisce Marx, senza soluzione. O meglio, impossibilitato a trovare una soluzione esclusivamente, prettamente giuridico-legislativa (il ruolo di “garanzia” del sindacato è fondamentale ma fa quel che può, in condizioni difficili). Addirittura Lenin criticò aspramente il ruolo di mediazione legislativa del sindacato come utopica, riformistica risoluzione di un conflitto tra capitale e lavoro all’interno dei rapporti di produzione borghesi, solubile solo con la rivoluzione socialista e l’instaurazione della dittatura del proletariato, la democrazia diretta dei soviet. Per Marx, a parità di legittimità giuridica, di affermazione-annullamento reciproco dei diritti, chi decide è la violenza (che può anche estrinsecarsi con l’arma del diritto e della legge, non solo con la forza bruta delle repressione militare o poliziesca). Il più forte (o chi si adatta meglio al mutare della situazione parafrasando Darwin), il più organizzato, il suo influente (il più egemonico direbbe Gramsci) vince e sottomette il suo avversario di classe. Detta a chi perde le sue condizioni. In questo sta l’estremo realismo politico, il suo totale distacco da ogni forma di moralismo di Marx. La storia, il diritto, la politica, lo stato, la morale, è di chi vince, anche e soprattutto di chi ricorre alla violenza.


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