Ausmerzen di Marco Paolini, trasmessa mercoledì 26 gennaio su LA7, ha portato alla nostra attenzione la questione dell’eugenetica e quindi dei programmi di soppressione delle “vite indegne di essere vissute”, cioè dei disabili e dei malati di mente durante il Nazismo e ancor prima. Nel finale, rivolgendosi ai medici, Paolini li ha esortati a coltivare la memoria del passato della medicina e a non dimenticare che alcune delle opportunità di oggi poggiano le radici nei turpi accadimenti di quegli anni, come per esempio il vaccino contro la tubercolosi che fu testato sui bambini disabili che morirono tra atroci sofferenze.
Negli anni Cinquanta, alla luce degli orrori perpetrati dai Nazisti anche in campo medico, la protezione dei volontari utilizzati negli esperimenti scientifici divenne un obiettivo centrale.
Questo però non è bastato per porre fine agli abusi compiuti in nome della ricerca scientifica.
Come abbiamo già raccontato, uno dei casi più raccapriccianti risale al periodo tra il 1932 e il 1972 durante il quale furono contagiati con la sifilide centinaia di neri a Tuskegee in Alabama, e non curati per permettere ai ricercatori di studiare la progressione della malattia. E non fu un caso isolato. In un articolo prossimo a uscire sul Journal of Policy History, la storica Susan Reverby racconta che negli anni Quaranta studiosi del Public Health Service USA infettarono deliberatamente persone del Guatemala, pazienti psichiatrici, carcerati e soldati, con la sifilide per testare l’efficacia del trattamento con la penicillina. Addirittura, in alcuni casi vennero pagate delle prostitute infette affinché facessero sesso coi carcerati. Tutto questo accadeva mentre i medici nazisti venivano processati a Norimberga.
Oggi colpisce il numero crescente di ricerche su esseri umani che sempre più spesso scelgono come target persone vulnerabili. L’industria farmaceutica spende miliardi di dollari ogni anno per testare farmaci, parte dei quali vanno a coprire i costi necessari per reclutare uomini e donne che partecipino agli esperimenti. Spesso si tratta di immigrati senza documenti attratti dalla prospettiva di un guadagno “facile”. Oppure, gli studi vengono realizzati nei paesi in via di sviluppo, dove la povertà è estrema e non esistono servizi socio-sanitari. Oltre il 50% di tutti gli studi clinici statunitensi è localizzato soprattutto in India e nell’Africa sub-sahariana. Forse gli studi possono offrire trattamenti, pur se sperimentali e non necessariamente efficaci o sicuri, altrimenti impossibili in quei paesi, si pensi alla profilassi della trasmissione di HIV dalla madre sieropositiva al figlio. Tuttavia, terminato lo studio viene interrotto bruscamente anche il trattamento, con ovvie conseguenze negative sulle persone.
Un altro inquietante elemento di novità è rappresentato dalla costituzione negli USA di un movimento tendente a riaprire le porte delle prigioni alla ricerca, cosa proibita dalle leggi vigenti.
Voglio terminare con le parole di Shernoff, uno psicoterapeuta statunitense sieropositivo che nel 2002 scriveva:
“Quelli di noi che stanno assumendo la nuova terapia combinata [contro HIV] stanno di fatto partecipando a quello che può essere definito come il più ampio e incontrollato trial clinico della storia della scienza medica”.