Finora le unità trapianti potevano contare solo su cuori che battevano ancora, di donatori cerebralmente morti.MacDonald, affiancato dal chirurgo cardiotoracico Kumud Dhital che ha eseguito gli interventi, ha spiegato in una conferenza stampa che i cuori donati erano alloggiati in una console portatile e sommersi in una soluzione protettiva sviluppata da specialisti dell’ospedale stesso. Gli organi venivano poi connessi a un circuito sterile che li faceva battere e li teneva caldi. “Tutto questo è stato possibile grazie allo sviluppo della soluzione protettiva e di una tecnologia che permette di preservare il cuore, di risuscitarlo e di monitorare la sua funzione”.La squadra medica lavorava a questo progetto da 20 anni e intensivamente negli ultimi quattro, ha riferito MacDonald. “Abbiamo ricercato per quanto a lungo il cuore può sostenere un periodo in cui cessa di battere. Abbiamo poi sviluppato la tecnica per riattivarlo nella console. Per fare questo abbiamo rimosso sangue dal donatore per caricare il congegno e poi abbiamo estratto il cuore, l’abbiamo collegato al congegno, l’abbiamo riscaldato e ha cominciato a battere”, ha spiegato. La tecnica darà la possibilità di trapianti cardiaci in molti paesi del mondo in cui la definizione di morte non è la morte cerebrale ma quella cardiaca, ha osservato.Per i tre pazienti, osserva Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, il trasporto dell’organo donato dalla località di provenienza dei donatori è durato dalle 5 alle 8 ore
Lecce, 24 ottobre 2014
Giovanni D’AGATA