Intanto, siamo sicuri che quando parliamo di “autonomia territoriale”, diciamo qualcosa di comprensibile, ancor prima di desiderabile? Il dubbio sorge di fronte al rifiuto affermato più volte dal Landeshauptmann e ribadito in modo perentorio la settimana scorsa al teatro Cristallo di Bolzano, durante una discussione sul tema dell’“identità”. “La nostra autonomia ha bisogno di alcune riforme – così Kompatscher – ma non di una sua declinazione territoriale”. Se non comprendiamo bene ciò che qui si sta rifiutando non è neppure possibile capire il rischio connesso.
L’“Autonomia territoriale” rappresenta – o dovrebbe rappresentare – il passo successivo al consolidamento dell’“autonomia etnica”; chi rigetta la prima opta necessariamente per la seconda. Ora, cos’è l’“autonomia etnica”? In una battuta: la preminenza delle appartenenze di gruppo rispetto a qualsiasi altro criterio aggregante. Si tratta di un principio del tutto ovvio e addirittura opportuno in situazioni di palese contrasto, dove la lotta per le risorse può accendersi proprio sfruttando un sentimento identitario fratturato. Ma in condizioni in cui tali contrasti appaiono, anzi, sono persino dichiarati ormai sopiti, non è un grave errore conservare intatti i dispositivi di potere che rendono le divisioni tra i gruppi di fatto superabili, per giunta parzialmente, soltanto da pochi fortunati o volenterosi?
Purtroppo la ricetta sembra ormai essere diventata questa: anche se le divisioni permangono, l’importante è non segnalarle, non parlarne o far finta che il problema sia stato felicemente annegato nell’indifferenza prodotta da decenni di relativo benessere. La qualità della vita però non è assicurata per sempre. I contrasti potrebbero riemergere e gli strumenti di contenimento messi a punto in passato rivelarsi non più sufficienti. Opporsi al perfezionamento territoriale dell’autonomia vuol dire sprecare un’occasione che potrebbe non darsi due volte.
Corriere dell’Alto Adige, 28 gennaio 2015