… E ripasso sul Piave e penso ad acque diverse,
che potresti anche essere Tu, ma saresti un’acqua
purificatrice, come quei sacri fiumi dell’Hindustàn.
Allora, potrei forse anch’io sublimarmi, come
un saggio aborigeno in tempi non tanto lontani.
Fuggono, sulla sinistra, ulivi a famiglie e cipressi
stipati; e nei prati di certo futuri ma ignoti raccolti,
che sembrano foglie di pioppo, però troppo bassi.
E il cuore, che incerto rimane: se andare o restare.
E passo sui campi arati di fresco, già pronti
per dare un bel pasto ai chiassosi gabbiani;
e case che un tempo sentivano grida di bimbi
e panciute massaie con piccole mani sui fianchi.
E passo vigneti ormai depredati dei grappoli,
dall’uomo o meccanici ordigni o da grandine;
e trovo gli aironi sui soliti fossi di sempre
e garzette, snelle scolte vestite di bianco.
È quasi il tramonto di un giorno sprecato
da politici infami, famelici, che ci spingono
inesorabilmente dentro il malefico baratro,
mentre il mais ormai alto racconta storie
di quando, bambini, felice lui ci nascondeva.
In testa ai filari di viti, i roseti guardiani
non serve ormai più che si immolino;
ma resisti Tu, intanto, mia rosa di ottobre,
forse presto ce ne andremo via insieme!
Ora penso a come anche Tu mi sei giunta
addosso di colpo, come un mare in tempesta,
e io – naufrago recidivo – mi sono goduto
dolce-folle pensiero di stare, dopo il naufragio,
da solo con te sopra un’isola che noi, entrambi,
fin da quando bambini, sappiamo non c’è …
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