Come si presenta un personaggio? Male, si capisce: e non può essere altrimenti. Quando appare, è poco più di un reperto, una specie di rottame di un disastro epocale. E inizia il lavoro di recupero, una faccenda sporca e durissima.
Lui non può fare molto, a parte esserci, e ricordare. È un reperto. Quando si racconta una storia, essa è già “storia” quindi è passata, finita, si è verificata e tutto si è concluso. Questo sembra una sciocchezza, in realtà è fondamentale ricordarsene. Si ha a che fare con una materia che possiamo definire morta.
È orribile? Lugubre? Può darsi.
Il punto è: perché parlare di cose morte? Perché quelle vive quando le pensi, sono andate. Anch’esse diventano passato prossimo, remoto, infine non rimane nulla.
Perché lo facciamo, non è in fondo essenziale. Sappiamo solo che dobbiamo farlo perché adoriamo le storie. Forse è qualcosa che ci è rimasto da quando eravamo nelle savane africane, iniziavamo a usare la testa, il linguaggio, e si narrava. Di caccia soprattutto.
Il solo modo per ricordare che siamo stati qui, è raccontare forse. E qualcuno, forse, ci ascolterà. Non saremo passati invano.
Il punto non è questo, e mi rendo pure conto che esiste il rischio di scivolare nella filosofia: e non ho tali capacità. Di certo, siccome si maneggia un reperto, occorre enorme cura. Disciplina. Scovare le giuste parole perché quello che abbiamo scovato, sia compreso da chi lo vedrà, lo leggerà. La cura per la scelta delle giuste parole è soprattutto questo: permettere a chi legge di comprendere con che cosa a che fare.
Più il tempo passa, più mi rendo conto che sarebbe necessario più tempo per scegliere le parole: ma mi manca. Certo, faccio quello che posso. Potrei fare di meglio, se soltanto potessi, ma non ce la faccio. Ci penso su parecchio, e questo mi sta bene.
Poi penso che se avessi più tempo, lo sprecherei. Non sarei sotto pressione e forse finirei per perdermi. O forse mi sono già perso.