Come si fanno ad intrecciare le visioni di un futuro distopico in cui l’umanità ha annichilito sé stessa in una guerra contro le macchine e ha affidato la propria salvezza ad un programma informatico, con Mago Merlino, la città di Camelot, i cavalieri della tavola rotonda e la vita di un menestrello cieco del VI secolo dopo Cristo? Semplice, grazie ad una fervida immaginazione: quella di Arjen Anthony Lucassen.
Negli anni in cui esplode il fenomeno del progressive metal sull’onda del successo discografico dei Dream Theater, Lucassen era metallaro già da parecchio e da almeno una decina d’anni era attivamente presente sulla scena classic e melodic, con Vengeance e Bodine. Nel ’95 dà vita a quello che, a mio umile parere, definirà una nuova vetta del prog metal per tutti gli anni a venire e fino ad oggi. Il particolare genere di cui stiamo parlando, si sa, non è nelle corde dei molti, per il semplice fatto che con esso, di fatto, si identifica una versione cerebrale del metal che, invece, ai suoi albori, come è noto, nasceva da motivazioni del tutto opposte. Questo cortocircuito non è ancora stato risolto e continua a generare confronti tra chi intende la nostra musica esclusivamente in maniera più spontanea e viscerale e chi non esclude che il ‘suono pesante’ possa anche contaminare generi del tutto distanti da noi (appositamente non voglio parlare di evoluzione perché non sarebbe semanticamente corretto).
Con gli Ayreon, Lucassen inizia anche a farci metabolizzare il concetto di metal opera: qualcosa che va addirittura al di là della ridondanza compositiva tipica del canone e che intreccia l’uso operistico, classico (inteso come proprio della musica classica), di sviluppare una complessa e variegata trama sonora, ripartita in veri e propri atti e arie, insieme a un concept tematico preferibilmente futuristico o tuttalpiù fantasy. La particolarità, tipica anche del power metal, risiedeva nella positività finale del messaggio e nella possibilità che, tutto sommato, l’uomo potesse anche redimersi, tornare sui propri passi ammettendo i propri errori.
L’opera di Lucassen è sempre andata al di là della semplice musica in sé: essa era lo strumento per raccontare storie e favole. Tutt’ora è così ma siamo cambiati noi, o forse la maggior parte di noi è meno disposta a lasciarsi andare, a mettere da parte il senso critico e tornare bambini per poterla apprezzare pienamente. L’esperimento del tempo che ci veniva proposto era un piacevole racconto da leggere attraverso le parole del menestrello Lucassen-Ayreon, che oggi ti fa andare la mente a quel periodo di ingenuità di ragazzino dalla fervida fantasia ipereccitata da cose semplici e meravigliose ma che ti ponevano anche un po’ ai margini del gruppo, perché preferivi rimanere in camera tua a raccontarti storie assurde che andare a giocare a pallone insieme agli altri; cose come fare il dungeon master, tracciare la mappa di un mondo immaginario, risolvere gli enigmi di un libro-game o leggere i testi di un disco come The Final Experiment mentre le sue note scorrevano veloci; tutto ciò ci faceva sentire un po’ come il Bastian de La Storia Infinita (Charles).