Avere vent’anni: febbraio 1996

Creato il 29 febbraio 2016 da Cicciorusso

IMMOLATION – Here in After

Luca Bonetta: È da un sacco di tempo che non scrivo nulla di serio sul blog e mi odio un po’ per questo ma recenti impegni lavorativi mi stanno assorbendo più tempo di quello che vorrei (leggi: a breve, se Satana vuole, mi fanno un contratto decente e devo rigare dritto facendomi il triplo culo), quindi tant’è. Però non posso esimermi dal buttare giù due righe per il ventennale di questo disco in particolare. Vuoi perché gli Immolation sono da sempre uno dei miei gruppi preferiti, vuoi perché a mio parere non hanno mai raccolto neanche metà della gloria che meritano, vuoi perché Ross Dolan è un po’ il Dante Alighieri del lirismo death metal ma due parole su Here In After sono il minimo che possa fare. Gli Immolation, sotto molti aspetti, rappresentano al meglio ciò che amo e cerco nel death metal: oscurità, oppressione, violenza e, al tempo stesso, quella furia catartica capace di trasformare una giornata del cazzo in un lontano ricordo. Su Here In After si percepisce ancora una certa immaturità di fondo; la band non è ancora pienamente in equilibrio su quei binari che di lì a poco costituiranno la loro cifra stilistica. Uno stile personalissimo ed inconfondibile che troverà la sua piena realizzazione in Close To A World Below e nei lavori seguenti, andandosi purtroppo un po’ a perdere con gli ultimi album, complice probabilmente l’ingresso nella scuderia Nuclear Blast, con i conseguenti danni che questo comporta in termini di produzione e genuinità del prodotto finale. Here In After appartiene però ad un’altra epoca, fatta di attitudine e idee vincenti, un’epoca in cui la tecnologia non poteva salvarti il culo sempre e comunque e se non avevi le palle finivi giustamente dimenticato.

BRUCE DICKINSON – Skunkworks

Cesare Carrozzi: Mah. Brutto brutto non è. Alla fine il vecchio Bruce come compositore non se l’è mai cavata troppo male, anzi. Ed infatti anche qui ci sono bei pezzi, mica no. Inertia, Dreamstate, Faith, Innerspace sono canzoni belline, però l’album nel suo intero non mi ha mai preso granché. Non so, forse sarà il fatto che già dopo il precedente Balls To Picasso m’ero affezionato al chicano Roy Z, chi lo sa. E poi parliamoci chiaro, Space Race è forse il pezzo più brutto di tutti i dischi da solista di Dickinson, metterlo in apertura è volersi proprio male. Ovviamente la prestazione vocale è superlativa ma non ci siamo proprio. Meno male che, resosi conto dell’errore, Bruce poi richiamò Roy Z per il successivo Accident Of Birth, che fortunatamente è proprio di tutt’altro livello. Ne parliamo l’anno prossimo.

SEPULTURA – Roots

Ciccio Russo: Dato che Roots è stato già sviscerato a dovere dai miei sodali, mi ricollego al dibattito sorto dall’articolo del Messicano per spezzare una lancia a favore di Chaos AD, giacché quando ne ricorse il ventennale ancora non ci era venuta l’idea di ‘sta rubrica. Era un album commerciale, ok. Ma lo era in maniera perfetta e coerente con i suoi obiettivi, come lo erano stati il Black Album o Youthanasia. Che potranno pure farvi cacare ma tant’è. Sono gli album di entrata, bellezza. Averceli, oggi. Quanti trentenni di oggi furono folgorati sulla via di Belo Horizonte da Territory e Slave New World – figlie di quell’ibridazione tra metal estremo e hardcore già sperimentata dai Max Cavalera con i Nailbomb – per poi passare subito dopo a Obituary e Cannibal Corpse? Roots, se vogliamo, è addirittura meno paraculo e più sperimentale del predecessore, per quanto altrettanto furbetto. Pochi album sono generazionali come Chaos AD. Se non eravate adolescenti all’epoca, è veramente difficile spiegarvi che cosa significassero i Sepultura allora, come mettessero tutti d’accordo. Anche gli alternativoidi che schifavano il death scapocciavano con Refuse/Resist. Come ha commentato qualcuno di voi, i brasiliani sono stati insieme ai Pantera gli unici veri nuovi re che, sorti dalle macerie del terremoto grunge, erano riusciti a riportare il metallo a casa, nella sua versione più rozza e immediata. Entrambi abdicarono poco dopo lasciando il vuoto più totale. Dopo di loro, al massimo, solo gli Slipknot, e capite bene quanto sia impietoso il confronto. Il suicidio di quelle due band significò per l’heavy metal quello che significò per il Sud Italia la decapitazione di Corradino di Svevia. Una colossale occasione mancata dopo la quale tutto non avrebbe potuto che peggiorare. Il treno per un’affermazione mainstream delle sonorità metal più dure e coriacee non sarebbe passato mai più.

Charles: I Sepultura dovevano sciogliersi dopo Arise. Questa è roba da boldriniani, terzomondisti, Greepeace, WWF, Tiziano Terzani e studenti punkabbestia fuoricorso del DAMS di Bologna che si fanno le canne a via Zamboni. Questa merda – ma aiutatemi a dire merda – ha causato i Soulfly, uno dei più grandi mali del mondo. Preferirei essere chiuso in una stanza pienza di zanzare e senza Autan, con Manu Chao che mi parla degli immigrati clandestini e Jarabe de Palo che mi canta una serenata mentre provano a mettermelo dietro, che essere costretto a riascoltare ‘sta roba coi tamburelli del cazzo.

FU MANCHU – In Search Of…

Stefano Greco: Ho sempre sostenuto che i Fu Manchu siano il gruppo migliore da ascoltare in macchina: l’iconografia, i titoli dei brani, i riff su di giri, tutto comunicava un vera e propria ossessione per i motori e il mio modo di omaggiarli quindi era sentirli spesso quando ero al volante. Solo che io non possedevo una Ford Mustang o una Chevrolet Chevelle; le scorribande del sabato sera (code interminabili sul Lungotevere intasato) si svolgevano invece in una vecchia Golf con degli atroci coprisedili automassaggianti che i miei amici avevano ribattezzato GiggiWagen in onore del proprietario (mio padre). Verso la fine della sua lunghissima vita, come in un romanzo di Stephen King, la GiggiWagen cominciò a manifestare una volontà propria e lo stereo inghiottì nelle sue viscere la cassetta di In Search Of… che quindi divenne l’unica cosa che era possibile ascoltare. Tutti identificarono l’accaduto con l’ennesimo guasto meccanico di un mezzo oramai arrivato alla fine, io invece ho sempre saputo che la macchina stava in realtà esprimendo le sue ultime volontà. Dopo anni in cui era stata sottoposta senza sosta all’atroce sevizia del greatest hits dei Gipsy Kings, stava comunicando che aveva conosciuto lo stesso dolore che avevo provato io nei lunghi viaggi estivi a base di Djobì Djobà, Bamboleo e la versione mariachi di Volare.  Come un faraone che porta nell’aldilà i suoi averi la GiggiWagen morì dalle parti di Empoli con i Fu Manchu che giravano a palla. Pochi giorni dopo fu tumulata dallo sfasciacarrozze insieme al suo amato In Search Of…

CEMETARY – Sundown

Ciccio Russo: Sicché intorno a metà anni ’90 quasi tutti i gruppi nati dal death/doom scoprirono la new wave, mutuarono un paio di intuizioni dai Katatonia di Brave Murder Day e rispolverarono i vecchi vinili dei Sisters of Mercy che, si sa mai, magari a ‘sto giro, a parte qualche copia venduta in più, un po’ di fregna la si becca. Così fu pure per gli svedesi Cemetary che, pur accontentandosi del ruolo di onesti gregari in un sottogenere che aveva tirato fuori roba iperurania come i My Dying Bride, dal ’92 al ’94 avevano cacciato, al ritmo di un lp all’anno, una tripletta impressionante per ispirazione e conoscenza delle regole del genere (il mio preferito resta il secondo Black Vanity). Riascoltato oggi, Sundown suona mediocre e derivativo, al netto di qualche buon momento. Il cantante Mathias Lodmalm l’anno dopo piazzò le ultime registrazioni col vecchio moniker nel dimenticabile Last Confessions e, contemporaneamente, diede alle stampe l’esordio di un nuovo progetto ancora più calato in territori darkettoni e battezzato proprio Sundown, con l’ex Tiamat Johnny Hagel al basso. Durò poco. Proverà a resuscitare i Cemetary due volte, nel 2000 e nel 2005, con risultati tutt’altro che imperdibili.

TROLL – Drep de Kristne

Charles: Memore della lezione appresa da Ihsahn, Samoth e soci, Nagash, allora unico membro dei Troll, con Drep de Kristne condensa suoni, atmosfere e un modo di fare black metal che sarà ben rappresentativo di molta roba che sarebbe venuta fuori in quell’anno mirabile. Parliamo delle fondamenta del black metal sinfonico, atmosferico, chiamatelo come cazzo vi pare, e dei lavori di chi riuscirà a sviluppare, anche meglio, quello stile; parliamo anche di Arcturus, Old Man’s Child (ma sì), Limbonic Art e, se vogliamo, pure Cradle of Filth, gruppo che, al contrario di quegli altri, non ho mai potuto soffrire anche se mi dicono che mi sbaglio. Comunque, tornando a Nagash, questo dischetto di una mezz’ora scarsa di musica anticipa parecchio di ciò che farà dopo. Se vi piacevano i Covenant/The Kovenant non potete non conoscere Drep de Kristne anche perché è proprio a partire dai Troll che inizia a formarsi quell’idea a cui la potente combo Hellhammer, Amund/ Blackheart, Sverd darà vita con due pietre miliari del black metal sinfonico/elettronico: Nexus Polaris & Animatronic. Insomma, ragazzi, questo è un album storico. Andate a recuperare i Troll, su.

GAMMA RAY – Silent Miracles

Cesare Carrozzi: Madonna che cagata. Perché? Perché?!? Ma davvero c’era il bisogno di reincidere The Silence con Kai Hansen alla voce? Oppure di riprendere Man On A Mission da Land Of The Free e trasformarla in una ballata senza capo né coda? Certo che non ce n’era bisogno. E allora perché pubblicare ‘sto EP della merda? Ma per soldi, ovviamente. Ed io lo comprai? Ma che domande, CERTO che l’ho comprato! E quindi sarò stronzo, no? Eh sì, e manco poco.

KAMPFAR – s/t

Charles: E insomma, mentre noi da bravi ragazzini eravamo impegnati a farci le pippette, quell’anno i Kampfar fecero uscire il loro primo EP omonimo. Tre pezzi: Kampfar, furioso; Hymne, epico; Hjemkomsten, atmosferico. Di solito i primi EP, dischi, etc. o fanno cacare o sono registrati coi piedi, questo qui no. I Kampfar si presentarono con un biglietto da visita pesantissimo e foriero di qualcosa di ancora più maligno, l’insuperato Mellom skogkledde aaser. Per chiudere con un parere altamente tecnico da navigato ed esperto critico musicale quale sono: questi qui ci hanno sempre avuto due palle grosse così.

MOTORPSYCHO – Blissard

Stefano Greco: Poco tempo fa, commentando con un amico l’uscita del nuovo Here Be Monsters si è finiti sull’annosa questione di quale fosse l’album migliore nella sconfinata discografia dei Motorpsycho. Come prevedibile non è stato possibile identificare un vincitore chiaro ma si è finiti sugli album incisi fra il 94 e il 97. Blissard è il capitolo centrale di questo ipotetico trittico e rappresenta il meglio dell’indie rock anni ’90 inteso in un’ottica differente dai colleghi americani. Un sound perennemente in bilico tra distorsioni e vena intimista. Rispetto a molte delle uscite successive (sempre belle) Blissard conserva ancora quell’aura di confidenzialità tipica di un prodotto fatto in casa, è una raccolta di brani che trova la ragion d’essere nelle proprie imperfezioni. I Motorpsycho hanno la capacità unica di agire al di sotto della coscienza, non sono mai esagerati, esplosivi o chissà cosa ma ti si riescono ad infilare sotto la pelle come poche altre cose. Ti accoltellano, ma lo fanno con discrezione, con dolcezza. Musica per gente che ama soffrire.