Questa è stata la mia prima recensione. Non su internet, ovviamente, e neanche sulla carta stampata; l’ho scritta su un quadernone a caso, senza nessun motivo, perché non l’avevo comprato da molto, The X Factor, eppure lo stavo già consumando, ed era come se sentissi il bisogno di sfogare tutta l’esaltazione e le farfalle nello stomaco; così, non sapendo suonare, né avendo nessuno che potesse comprendermi, ho preso un quadernone e ho scritto. Lo ascoltavo tendenzialmente di notte, e questa abitudine mi è rimasta. In quel periodo ero in viaggio-studio in Inghilterra e dormivo a casa di una famiglia di questo paesino perso tra lo squallore suburbano della profonda provincia di Manchester. I componenti di questa famiglia si sforzavano di essere gentili con me e il mio amico, ma a me sembravano parecchi passi indietro nel processo evolutivo, o alternativamente una degenerazione abominevole della società postindustriale. Mangiavano sempre schifezze sul divano e le uniche volte che la signora si sforzava a cucinare uscivano cose barbare e incivili tipo il pollo con la crosta di miele o la pasta con la marmellata. Era tutto molto sporco e unto, in bagno c’era la moquette per terra e la gente in città non faceva altro che bere, fare a botte e giocare a calcio. Alcuni miei compagni di corso una sera furono circondati e picchiati per strada così, solo perché italiani, venti contro cinque, con zigomi rotti, denti saltati, orbite fratturate, ambulanze a sirene spiegate, cose del genere. Non è stato un bell’impatto con gli inglesi in generale. Insomma era in questo contesto che ascoltavo The X Factor fino alla nausea finché un giorno presi un quadernone e ne scrissi una recensione. Non ricordo esattamente cosa scrissi, magari ce l’ho ancora stipata da qualche parte, ma di sicuro accennavo al fatto che mentre sentivo The Aftermath in cuffia, di notte, scattavo sempre col pugno verso il cielo quando Blaze gridava I’m just a soldier. Se la ritrovo la posto nei commenti.
The X Factor è un disco cupo, notturno, crepuscolare, e rimane un unicum nella storia dei Maiden, sia per fattori stilistici sia per essere l’unico vero capolavoro del post-Seventh Son; un album mai più replicato, anche se potevano avvertirsi i primi prodromi già nel tono sommesso di No Prayer for the Dying e Fear of the Dark. E del resto anche la scelta di Blaze Bayley, il fattore x, è stata dettata dalla stessa logica: incupire il suono, esplorare la parte oscura dei Maiden, con una presa di distanze anche grafica rispetto agli spandex colorati e alle copertine barocche degli anni ’80. Purtroppo i fan reagiranno male, e Steve Harris è uno che dà molto peso a queste cose: per cui immediatamente dopo ci sarà un brusco dietrofront col più vivace Virtual XI e l’infame reunion con Dickinson e Smith, che porrà la pietra tombale sulle velleità creative della band condannandola a diventare la continua replica di sé stessa.
Però insomma, alla fine scelse Blaze Bayley. E lui lo ripagò interpretando The X Factor col suo timbro basso, roco, e con una manciata di canzoni ammantate da un desolante spleen proletario: una su tutte 2 AM, uno squarcio della squallida vita solitaria di un ingranaggio della macchina, quasi al livello degli inglesi da cui stavo io. Però l’intera esperienza di Blaze dietro al microfono degli Iron Maiden si può riassumere con Sign of the Cross, il capolavoro che non ti aspetti, una composizione di undici minuti in larga parte strumentale che raccoglie l’eredità dei precedenti pezzi lunghi dei Maiden rivisitandone lo spirito in un modo mai praticato prima. È forse proprio Sign of the Cross il manifesto programmatico del nuovo corso dei Maiden, che però nacque e morì con questo disco. In Sign of the Cross c’è forse la migliore prestazione di Nicko McBrain di sempre, insieme a Where Eagles Dare; e tutta la seconda metà del pezzo, quella strumentale, è strutturata come un crescendo in cui le chitarre e la tastiera si intrecciano, e l’atmosfera claustrofobica si apre pian piano e cede il passo alle accordature aperte, alle chitarre gemelle, a tutto quel tripudio di rifferama e madonne di cui i Maiden erano capaci ai tempi d’oro e che Sign of the Cross riporta meravigliosamente alla mente. Il pezzo è firmato dal solo Steve Harris, chiaramente.
Purtroppo l’impazienza feroce dei fan stroncherà sul nascere le aspirazioni di Steve Harris, che già dal successivo Virtual XI farà una frettolosa marcia indietro lasciando l’eredità di The X Factor alla sola Virus, l’inedito contenuto nel greatest hits del ‘96, una canzone talmente nonsense da essere irresistibile. Ne hanno fatto pure un video, irresistibile anch’esso. Questo album è l’ultimo alito di vita degli Iron Maiden: dopo di esso si rassegneranno ad interpretare sé stessi, anche se a volte, come in Brave New World, gli riuscirà particolarmente bene. Ma negli ultimi venticinque anni è The X Factor il solo a essere degno di stare al fianco dei classici dei Maiden sullo scaffale. (Roberto ‘Trainspotting’ Bargone)