La scena musicale “alternativa” italiana, specialmente negli anni ’90, ha sofferto di un notevole provincialismo, per cui (dis)onesti epigoni dei maestri americani (nulla di male nel copiare i mostri sacri, sia chiaro) avevano la stessa attitudine pretenziosa e assolutamente ingiustificata di un rappresentante d’istituto in quota sinistra studentesca liceale o del cantante di una cover band dei Cranberries, fondata appositamente per la Giornata dell’Arte nella palestra della scuola superiore al solo di scopo di rimorchiare quindicenni in piena crisi ormonale. Fondamentalmente si sentivano ‘stocazzo, senza aver fatto nulla. I Massimo Volume no. Il leader Emidio Clementi, marchigiano d’origine, ma bolognese d’adozione, lavoratore proletario in Svezia, fan tanto di Jim Carrol e Carnevali quanto dei Fugazi e degli Slint, era tutto tranne che spocchioso. Per questo i testi recitati (e non cantati) su un tappeto sonoro direttamente influenzato dalle leggende dell’indie rock americano davano l’idea di vividi bozzetti di laceranti momenti di vita vissuta, ancor prima che vuoti esercizi di stile.
Emidio Clementi è sempre stato sia uno scrittore sia un musicista. E la band ha sempre tributato omaggio ai propri ascolti senza alcuna velleità di dover cambiare il mondo della musica tramite i propri dischi. E alla fine, proprio questo approccio naif, ha reso possibile che i Massimo Volume segnassero in maniera indelebile la storia della musica italiana. Una profondità lirica che si sposava perfettamente con le stranezze chitarristiche di Gabriele Ceci, Metello Orsini ed Egle Sommacal, una formula tale da – scusate se vi sembra un’enormità- spazzare via la “concorrenza” americana. Esatto, perché Thurston Moore poteva anche scrivere cagate artistoidi nei testi, ma Emidio Clementi ti raccontava di un tizio qualunque che entrava in una pizzeria da asporto e, mentre pagava, notava lo scorrere alienante della vita intorno a lui e, avviandosi verso casa, si rendeva conto che “erano gli ultimi istanti di quella che da allora in poi avrei chiamato la mia vita precedente“.
La storia è abbozzata, non si capisce bene cosa succeda, eppure il tutto avviene in un atmosfera tesissima e brumosa come solo in una provincia emiliana e ti rendi conto che il protagonista potresti essere tu e il senso di sospensione e di incognita totale ti fa venire i brividi. Oppure i commoventi ricordi d’adolescenza di “inverno ’85”, il senso di vuoto della vita di provincia in “Da qui”( “Una strada attraversa il paese/ Il paese è quella strada/ Nessuno ha scelto di vivere qui/ Ma c’è qualcosa che ci trattiene/ Perchè anche se non c’è amore/ a volte, a volte c’è qualcos’altro“), lo smarrimento per la fine di una relazione in “Nessun ricordo” (Nessun ricordo/ Solo la precisa coscienza della tua mano chiusa a pugno/ che cerca disperatamente di fermare qualcosa che sta accadendo nel tuo corpo). E davvero tanto altro, difficilmente riassumibile in una recensione; solo un ascolto non superficiale può restituire la potenza di questo lavoro. Il miglior disco rock (post o math poco importa, la cifra stilistica rilevante in questo caso è l’alto impatto emotivo) italiano degli anni ’90, senza ombra di dubbio.