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Avere vent’anni – Morning Glory, gli anni novanta e l’iniziazione all’alcolismo

Creato il 29 ottobre 2015 da Cicciorusso

Avere vent’anni – Morning Glory, gli anni novanta e l’iniziazione all’alcolismo

Probabilmente questo è il disco con cui identifico maggiormente i miei anni al liceo. Ce lo avevano TUTTI, lo conoscevano a memoria TUTTI ed era l’unico che riusciva a mettere d’accordo gli ascoltatori dei Darkthrone e dei Backstreet Boys. Da questo punto di vista, (What’s The Story) Morning Glory è la prova definitiva che non c’è nulla di meglio del rock’n’roll; e chissà quanti ne ha convertiti, al verbo della chitarra distorta.

Il motivo per cui gli Oasis spaccavano così tanto era che rappresentavano il perfetto connubio tra talento compositivo e puzza di birra rancida. Erano esplosi solo l’anno prima col debutto Definitely Maybe, e già l’industria discografica aveva provato a ripulirli; ma l’operazione era complicata e, nonostante tutto, il muro di suono che era la caratteristica principale della band non fu intaccato se non in minima parte. Perché, a parte i due singoli principali (Wonderwall e Don’t Look Back in Anger) e l’estemporanea Cast No Shadow, anche questo disco era tutto incentrato sul loro muro di suono, quel pastone di chitarre poco definito che in teoria sarebbe dovuto risultare inascoltabile e fastidioso per l’ascoltatore poco avvezzo al rock’n’roll e che invece non fu minimamente d’ostacolo nella corsa al successo galattico degli Oasis nella seconda metà degli anni novanta. Purtroppo pian piano la suddetta puzza di birra rancida si affievolirà, senza mai comunque scomparire del tutto, ma il talento compositivo non scompare da un giorno all’altro.

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Questa è gente che se non avesse avuto successo con la musica avrebbe presumibilmente avuto due strade: o una vita da operai alcolizzati che la domenica vanno a spaccare denti ai tifosi del Manchester United o lo spaccio di droga, mantenendo comunque inalterato il vivace programma del fine settimana. Loro erano dei personaggi con un caratterino molto particolare che li rese anche spendibili, diciamo così, per i mass media: i litigi tra fratelli spesso finiti a pugni in faccia e sedie che volano tipo film di Bud Spencer, i concerti con chitarre spaccate sulla testa dei fan disturbatori che salivano sul palco, le sbronze moleste collezionate ad eventi di gala col pubblico ben vestito, le interviste in cui dicevano di essere più famosi di Gesù Cristo nonché la migliore band esistente dai tempi dei Beatles (quando non menavano direttamente l’intervistatore), e così via. Ma, nonostante la tronfia arroganza ostentata in ogni occasione, è sempre rimasto in loro una specie di spirito di umiltà quasi contadina verso le persone che stimavano, come nel caso di Cast No Shadow, che come recitava il booklet è dedicata al genio di Richard Ashcroft. Richard Ashcroft, quello dei Verve, avete presente: un bel gruppettino per fattoni, e lui anche, niente da dire, buon compositore, discreto carisma, bel timbro di voce, bravo ragazzo, simpatico, bella presenza, alto, ma che ai livelli di una Champagne Supernova non c’è mai arrivato neanche a mettere insieme tutti i suoi dischi anche successivi al ‘95. E invece niente, loro dedicano una canzone al suo genio. Sinceramente ho sempre pensato che Ashcroft gli vendesse la droga e questo fosse un modo per fargli abbassare il prezzo.

Però a parte tutto questa storia della dedica è vera, è esplicita, e il pezzo è proprio un inno giaculatorio al genio di Ashcroft, che davanti al sole non proietta ombra, cose del genere. E questo particolare secondo me, tenendo presente la tracotanza per la quale erano famosi, è sintomo di una cosa molto precisa: e cioè che Noel Gallagher era veramente uno innamorato della musica. Talmente innamorato dal mettere qualsiasi tipo di orgoglio da parte quando ascolta qualcuno che, per qualche motivo, considera un genio. Credo sia questo il motivo per cui ci sta così simpatico: Noel Gallagher è sempre stato uno di noi. Questo è uno che ha imparato da solo a suonare la chitarra che aveva trovato in soffitta e solo dopo un paio d’anni si è reso conto che era scordata perché un amico di famiglia gliel’aveva detto e gliel’aveva accordata. Come si fa a non avere in simpatia un tizio del genere?

Avere vent’anni – Morning Glory, gli anni novanta e l’iniziazione all’alcolismo

Poi c’era la rivalità coi Blur, l’altro gruppo inglese esploso in quel periodo e che proprio il mese prima di Morning Glory aveva fatto uscire il vendutissimo The Great Escape: ognuno dei due gruppi rappresentava perfettamente un’Inghilterra speculare all’altra, sia musicalmente che attitudinalmente. La band dei Gallagher era – nonostante le dichiarazioni tonitruanti – di basso profilo, sporca, grezza, cafona, perfetta da ascoltare durante l’intervallo di una partita della Premier League trasmessa in qualche pub di periferia frequentato da reietti, bifolchi, hooligans e pezzi di merda in generale; la band di Damon Albarn era più ricercata, sardonica, stilisticamente imprevedibile, e sarebbe andata bene come sottofondo in una festa di  ragazzotti borghesi di Kensington che non avrebbero mai osato bere una birra sgasata in vita loro. Ma, a parte l’aspetto musicale, era molto più facile identificarsi negli Oasis che nei Blur: questi ultimi erano dei fighetti che a incontrarli una sera in un pub magari si sarebbero comportati da stronzetti presuntuosi girandosi dall’altra parte, mentre gli Oasis al massimo ti avrebbero chiamato wanker per poi spaccarti un bicchiere di birra in testa, però sai quando hai 15 anni e ti piace il rock’n’roll preferiresti che un gruppo che ascolti ti pigliasse a mazzate, invece che rivelarsi essere come quei tipi col maglioncino sulle spalle annodato sotto il collo che frequentano il locale venti metri più in là rispetto a quello che frequenti tu, e con cui passate il sabato sera a commiserarvi a vicenda. In ogni caso, non ci si metteva molto a capire da che parte stare.

Avere vent’anni – Morning Glory, gli anni novanta e l’iniziazione all’alcolismo

Gli Oasis comunque erano il gruppo che da ragazzino più mi faceva sentire in fase vaffanculo tutto. Trasmettevano un senso di libertà e di strafottenza che difficilmente ho trovato altrove; sarà perché erano veramente così, sarà perché Liam Gallagher era un semianalfabeta alcolizzato che sul palco si muoveva solo per chinarsi a prendere il bicchiere o prendere a cazzotti qualche malcapitato a caso, fratello compreso, sarà perché il loro modo violento ed esagerato di manifestare le proprie passioni te li faceva sentire più vicini, loro che un giorno si spaccavano di mazzate e il giorno dopo si dichiaravano amore eterno, poi la settimana dopo uno cacciava l’altro dal gruppo e la settimana dopo ancora Liam dedicava Acquiesce al fratello, eccetera. In un mondo falso e ipocrita, quantomeno gli Oasis ti davano un po’ di sincerità. E così, ogni volta che si usciva il fine settimana, io e i miei amichetti ci si caricava con Some Might Say e l’ovvia Cigarettes and Alcohol. Devo dirvi sinceramente che mi sono trattenuto dallo scrivere qualcuno dei migliaia di aneddoti e ricordi che ho sugli Oasis, ma in quel caso non finirei più e quindi rimando tutto al novembre 1996 quando il cofanetto dei singoli compirà vent’anni, perché peraltro le b-sides dei quattro singoli erano quantomeno al livello dei pezzi di Morning Glory e sarà dunque assolutamente necessario parlarne. Però non posso esimermi dal salutare Luciano, a cui al liceo gli Oasis piacevano talmente tanto che aveva iniziato a suonare la chitarra e si era fatto il caschetto come loro, e che peraltro l’unica volta che li è andati a vedere Noel non c’era perché aveva litigato col fratello e quindi Don’t Look Back in Anger l’ha cantata Liam, povero Luciazzo. Adesso chiudo qui perché altrimenti continuerei a scrivere all’infinito. (Roberto ‘Trainspotting’ Bargone)



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