"Un agile libro che ha il pregio di sottrarre l'interpretazione critica alle pastoie dell'accademia paludata, mostrando come il rigore dell'analisi testuale, la freschezza del pensiero e la fluidità espressiva possano felicemente convivere. Cinque saggi che ci guidano con naturalezza ad una migliore comprensione di Pavese e della sua dilemmatica personalità".Con questa motivazione domenica mattina Jacqueline Spaccini riceverà il premio Speciale del Premio Pavese, per il suo libro "Aveva il viso di pietra scolpita", cinque saggi sull'opera poetica e di prosa di Cesare Pavese.La mia amicizia con Jacqueline mi aveva permesso di leggere tempo fa il saggio che apre il libro, un confronto fra "La luna e i falò" di Pavese e "Il quartiere" di Pratolini. Che dire, l'argomento mi entusiasmava: i due autori del novecento italiano fra i miei più amati, Pavese e il mio conterraneo Pratolini. E il saggio di Jacqueline ha saputo davvero guidarmi in quell'intrico denso di sapori e di emozioni che è "La luna e i falò". Da allora letto e riletto.E forse, come l'autrice afferma nella breve introduzione al suo libro, è stata proprio il suo stesso girovagare per l'Europa, il suo sentirsi spesso in un altrove, a farla affezionare all'idea di fare i conti, un giorno o l'altro con Pavese, a cominciare dal ritorno alla terra d'origine dell'Anguilla della Luna e i falò.E che dire poi degli altri saggi che compongono il libro, il lento distaccarsi di Calvino da Pavese, l'analisi della Clelia di Tre donne sole, e le prose e le poesie tralasciate. Che magia quel rovistare di Jacqueline fra le poesie del disamore, che il Pavese maturo liquidò come scarti. C'è un saper rileggere quelle poesie, fra le emozioni che le produssero, fra le ragioni degli imbarazzi successivi, le revisioni e i rifacimenti posteriori, che rende a quei versi una giustizia che consola, per chi leggendoli ha sentito di amarli.E lo stesso è per i racconti tralasciati, frammenti o incompiuti. Perché cercare Pavese in questi ritagli, mentre è a disposizione tutta la sua opera? Io me lo spiego con quel freddo amore che l'autrice confessa nei confronti dello scrittore torinese. Ed è proprio di un freddo, lucido, terso amore che sono scritte queste pagine. Io che gli sono amico non saprei dare una definizione migliore di quella che hanno scelto i giurati del Premio Pavese, dandole un premio che merita davvero.Per me, mi basta dire che ne sono felicissimo.
"Un agile libro che ha il pregio di sottrarre l'interpretazione critica alle pastoie dell'accademia paludata, mostrando come il rigore dell'analisi testuale, la freschezza del pensiero e la fluidità espressiva possano felicemente convivere. Cinque saggi che ci guidano con naturalezza ad una migliore comprensione di Pavese e della sua dilemmatica personalità".Con questa motivazione domenica mattina Jacqueline Spaccini riceverà il premio Speciale del Premio Pavese, per il suo libro "Aveva il viso di pietra scolpita", cinque saggi sull'opera poetica e di prosa di Cesare Pavese.La mia amicizia con Jacqueline mi aveva permesso di leggere tempo fa il saggio che apre il libro, un confronto fra "La luna e i falò" di Pavese e "Il quartiere" di Pratolini. Che dire, l'argomento mi entusiasmava: i due autori del novecento italiano fra i miei più amati, Pavese e il mio conterraneo Pratolini. E il saggio di Jacqueline ha saputo davvero guidarmi in quell'intrico denso di sapori e di emozioni che è "La luna e i falò". Da allora letto e riletto.E forse, come l'autrice afferma nella breve introduzione al suo libro, è stata proprio il suo stesso girovagare per l'Europa, il suo sentirsi spesso in un altrove, a farla affezionare all'idea di fare i conti, un giorno o l'altro con Pavese, a cominciare dal ritorno alla terra d'origine dell'Anguilla della Luna e i falò.E che dire poi degli altri saggi che compongono il libro, il lento distaccarsi di Calvino da Pavese, l'analisi della Clelia di Tre donne sole, e le prose e le poesie tralasciate. Che magia quel rovistare di Jacqueline fra le poesie del disamore, che il Pavese maturo liquidò come scarti. C'è un saper rileggere quelle poesie, fra le emozioni che le produssero, fra le ragioni degli imbarazzi successivi, le revisioni e i rifacimenti posteriori, che rende a quei versi una giustizia che consola, per chi leggendoli ha sentito di amarli.E lo stesso è per i racconti tralasciati, frammenti o incompiuti. Perché cercare Pavese in questi ritagli, mentre è a disposizione tutta la sua opera? Io me lo spiego con quel freddo amore che l'autrice confessa nei confronti dello scrittore torinese. Ed è proprio di un freddo, lucido, terso amore che sono scritte queste pagine. Io che gli sono amico non saprei dare una definizione migliore di quella che hanno scelto i giurati del Premio Pavese, dandole un premio che merita davvero.Per me, mi basta dire che ne sono felicissimo.
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