Avvicinandomi alla pesca.

Da Posacostantino

Questo episodio così eccitante, mi convinse della necessità di migliorare la capacità di nuoto e fu così che ogni volta in cui entravo in acqua, prima cercavo di mantenermi a galla, poi cominciai a nuotare verso il largo e se non si toccava, tornavo indietro al punto di partenza. Invece per la pesca è stato un po’ diverso. Vedevo tanti pescatori lunghe le vasche e mi chiedevo come facessero a stare tanto tempo fermi, immobili come statue. Certi giorni andando in spiaggia cercavo di convincermi della inutilità di quella pratica, restando spesso ad osservarli per tanto tempo e non vedendo mai tirare fuori un pesce, dicevo a me stesso che forse non faceva per me. Troppe ore da dedicare. Troppo sole, poche soddisfazioni. Però era chiaro che mi attirava. Fino a quando l’arrivo del maestro, il modello da copiare, la tecnica giusta, il materiale da usare e finalmente i primi pesci. Galleggianti che sparivano sott'acqua. Filo robustissimo che spesso si rompeva al mio modo di tirare con forza. Poi ancora pesci, sempre di più, sempre più grandi, fino a quel cefalo che alcuni anni fa ho dovuto piegarlo per poterlo infilare nel cestino. Lauro, mio cognato, vicino a me con una calma indescrivibile, una volta che abboccavano, li stancava tirando piano piano, per poi tirarli su. Mentre io con un fare rapido e deciso li scaraventavo alle mie spalle, tanto che quasi tutti finivano al di là della strada, per poi recuperarli dopo. Quante volte rompevo quel filo di nylon, tanto da costringermi ad usarne uno più doppio. E quante volte ancora mi sono tuffato a rincorrere galleggianti che una volta rotto il filo scappavano via trascinati da quei pesci abboccati ai miei ami con una tecnica tutta personale e particolare. In questo mio dialogo continuo con l’acqua e i pesci, c’è stata un’altra estate calda. In quelle sere col vano tentativo di portare a casa qualche seppia. Arrivavano tutte le sere al calar del sole, sotto il bordo in cemento delle vasche e noi armati di retino e lampadina, su e giù tra le barche ormeggiate. I primi tentativi. Non riuscivo, tutte più veloci di me. Poi una settimana di settembre, ero solo io, in sette giorni insieme a Nicola, arredati di secchi, luci e retino. Tirai fuori più di trecento seppie di varie misure. Piccole tante, ma ancora di più quelle più grosse di una mano. Una pesca favolosa. Ricordo gli sforzi del piccolo Nicola. Quei secchi diventavano sempre più pesanti. Una media di cinquanta seppie a sera. Povera la mia Rita, ogni giorno per una intera settimana, costretta per ore a pulirle. Così tornammo a casa con tante buste, tutte piene, congelate, già pronte ad entrare con pieno diritto in tante squisite ricette. Una autentica strage. L’anno dopo niente, scomparse. Un’altra volta su un gommone di un amico, fermi al largo con una tecnica completamente diversa. Un paio d’ore col movimento dell’acqua sempre costante come un tappeto volante ed io che per poco non finivo per essere pescato. Quel ondeggiare, pian piano mi portò ad avvertire un gran male. Sensazioni di vomito, sudore freddo. Un mal di mare mai provato prima.

Restai inginocchiato sul gommone come un seguace di Maometto e sperai che quella agonia finisse presto.

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