Sulla 27esima ora del Corriere della Sera oggi ci si chiede se si debbano utilizzare i corrispettivi femminili delle professioni che ancora non ne hanno adottato uno nell’uso comune, ad esempio avvocata, ministra, ingegnera, per favorire la chiarezza.
Trovo la parola ingegnere rispettosa della par condicio di per sé e la sua declinazione al femminile mi suona ridicola. A dire la verità io sarei già entusiasta se:
A) la smettessimo di farci precedere dai nostri titoli di studio. L’abitudine tipicamente italiana di dare a tutti del Dottore mi è piuttosto antipatica. Nei Paesi in cui conta il saper fare e non il fare credere di, infatti, se ne abusa di meno. Così eviteremmo anche di conferire titoli a chi non ne ha ma se li lascia appioppare, perché fa più manager.
B) visto che proprio dobbiamo utilizzarli, questi titoli, dopo aver presentato l’ing Tizio e l’ing. Caio, usassero anche per me la stessa formula, invece di ricorrere solo al nome e cognome, cosa che capita due volte su dieci. A meno che non mi leggano nel pensiero e lo facciano per esaudire, solo per me, il mio desiderio in merito al punto A, rendendo contemporaneamente inutile il dibattito linguistico di cui sopra.
C) invece di aggiungere parole al femminile, ne abolissimo una. Quando rispondo al telefono, al posto dei colleghi assenti, mi sento dare o del tu, se mi va bene, o della signorina, se mi va male, da benemeriti sconosciuti, in genere di una certa età, a cui do del lei a prescindere. Non mi conosci, non sai chi sono: perchè parti in quarta con il “signorina”? Già mi dava sui nervi in università: i professori si rivolgevano ai ragazzi con un “lei cosa ne pensa?” e alle ragazze con un divertito “vediamo cosa ne pensa la signorina”.
Adesso poi la reazione nervosa è peggiorata, di pari passo con l’età che avanza e il carattere che si inacidisce: detesto il modo in cui viene usato il termine signorina, lavorativamente parlando, perché è carico di tutti i preconcetti e pregiudizi da cinepanettone che si porta dietro il modo italiano di considerare il lavoro femminile. Dall’altra parte del filo secondo me si immaginano, come da stereotipo, una passacarte centralinista che si fa la manicure al posto di lavorare. Che io non ne ho mai viste ma probabilmente da qualche parte devono esistere, come gli unicorni. E così poi mi tocca anche consolarli perchè ci rimangono malissimo quando rispondo, melliflua, alla richiesta successiva, immancabile non appena i toni della trattativa si scaldano: “Voglio parlare con il responsabile dell’ufficio”. “Desolata, le è andata male. Il capo, questa volta, è la signorina”.