Di recente Pavlensky si è invece avvolto, nudo, e in pubblico, nel filo spinato. Come si può immaginare, l’azione dimostrativa ha attirato l’attenzione e costretto i poliziotti intervenuti a tentare di liberare il giovane uomo dalla matassa di filo spinato che lo “conteneva”.
Stando allo stesso Pavlensky, la sua performance, se così si può definire, rappresenta lo stato, ormai naturale, dell’uomo all’interno di un sistema repressivo e attento a ogni movimento dei suoi cittadini. Un po’ come si fa con molti animali, che vengono rinchiusi, recintati, circoscritti, per essere meglio controllati e gestiti. Questo modo di fare riduce a bestiame, costretto solo a lavorare, consumare, moltiplicarsi.
È palese il fatto che viviamo in un momento storico di grandi sommovimenti sociali e pressione da parte di movimenti spesso sorti più o meno spontaneamente, dai citizens: un esempio su tutti, l’Occupy Movement, ormai transazionale e internazionale.
Viene da pensare che esista un momento, il superamento di un certo limite, anche se non ben tracciato, in cui la protesta e l’arte si confondono, si alimentano a vicenda, sfumano l’una nell’altra; in quel caso quanto si può parlare di fatto sociale e quanto di fatto artistico?
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