Bada a come scrivi

Da Marcofre

C’è una regoluccia sulla scrittura che più o meno dice:

Se non sei sicuro di fare bene, lascia perdere.

Si riferisce alla tentazione che si ha quando si scribacchia, vale a dire quella che spinge a infrangere le regole perché “me lo posso permettere”.
Intanto, vedo già qualcuno che alza la manina ed è pronto a domandare che cosa significhi “fare bene”; ma per me è evidente. Voglio dire, questa questione balza fuori quando tutto quello che si è letto sono i libri di scuola, e poco altro.

Viceversa, se si è fatta scorta, se il magazzino è zeppo di letture, si ha una idea abbastanza forte su cosa significhi “fare bene”. Hai un panorama ampio (non completo, ma quello non è possibile), di come Carver, Balzac, Scott Fitzgerald hanno affrontato la sfida della pagina, e ne sono usciti.
Hanno rispettato tutte le regole?

Domanda sbagliata. Quella giusta deve essere: hanno comunicato? Per quanto si giri e si rigiri, quello è il compito di chi scrive. Che poi abbia un blog, o scriva un romanzo, è un altro problema. Deve comunicare.

A quel punto puoi anche prendere fischi per fiaschi (Flannery O’Connor non conosceva la differenza tra paraurti e parafanghi: e allora?). Non è quello il cuore; se c’è, se batte, è da un’altra parte.

Faccio un esempio che è un po’ un classico: prendiamo proprio il verbo “fare”. Come sanno anche le spugne di mare, il verbo è la parte del discorso più importante di ogni frase. Sostiene tutto. Aggiungervi un avverbio potrebbe essere una cattiva idea (e otto volte su dieci lo è). Accoppia un verbo a un nome e potresti arrivare a conquistare il mondo.
Ma torniamo a “fare”. Di tanto in tanto va bene usarlo, ma sbatterlo sulla pagina a ogni piè sospinto perché:

“Desidero trasmettere l’idea che il mio personaggio agisce, non sta con le mani in mano”

non funziona. Comunica tutto fuorché semplicità. È tutto talmente elementare, che chi legge è portato a pensare di essere alle prese con un bambino che deve ancora leggere e studiare parecchio.

In realtà chi tende a ripetere concetti in una pagina, non sa (ancora) che non è la quantità che conta, ma questo è un discorso che mi pare di avere già affrontato a sufficienza.
E il verbo “dire”? Nabokov ricorda che Tolstoj in “Anna Karenina” lo usava sempre. Ci hanno pensato i traduttori (ma sono davvero traduttori, o editor?) a sostituire “disse” con “replicò”; “interloquì”; “parlò”, eccetera eccetera. Già: “Disse”.

È tuttavia necessario usarlo, per spiegare che il personaggio apre la bocca. Spesso si può eliminare, e nello stesso tempo comunicare al lettore che Tizio sta parlando. Che Caio replica e Sempronio interviene. Però bisogna pensarci. È sempre una questione di riflessione.

Come agire? Quale condotta adottare? Non si sa. Di certo le regole ci sono e si possono infrangere, ma prima di buttarle a mare perché è finita la dittatura delle regole, rifletti.

Se scali una montagna, la prima regola che devi imparare è che la roccia fa male, e rompe le ossa. La seconda è che puoi scalare a mani nude, ma prima devi adeguarti alla parete. È lei che conduce il ballo, tu puoi seguirlo, inventarti un passo un poco differente, osare, ma se cadi, vuol dire che hai mancato in qualcosa.

La parola possiede comunque delle regole che non possono essere disattese: comunicare. Essere efficaci. Se nella tua rincorsa a infrangere le regole dubiti di riuscire a comunicare, fermati. Forse stai sbagliando troppo.


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