Ci sono dei film che, semplicemente, ti capitano davanti. Così, dal nulla. Un po' come a me è successo con questa pellicola, che nella mia vita personale rimane permeata da una strana aura di mistero. Perché, nonostante sia stata realizzata solo pochi anni fa, io proprio non riesco a ricordare come diamine ho fatto ad averla vista. Non ricordo quand'è che ho preso la decisione di visionarla o mi è capitata di vederla, semplicemente sapevo di averla vista. E dato che non tocco mai alcool e nemmeno droghe di ogni tipo, sto ancora cercando di comprendere da dove derivi questa strana amnesia - ma credo che sia dovuta a un colpo in testa datomi da un povero ascoltatore stufo di sentirmi parlare. Resta però il fatto che di questo film mi ricordo ogni scena, ogni particolare e, soprattutto, ogni sensazione provata durante la visione. Perché pur non conoscendo nulla del particolarissimo stile del suo realizzatore o quelli che erano gli argomenti di base, posso affermare senz'ombra di dubbio che negli ultimi anni non c'è stato quasi nulla che abbia saputo mettermi a disagio, sia in positivo che in negativo, come questo prodotto. E dire che non rammento di aver mai avuto particolari antipatie né per il circo, né per i pagliaccio. No, manco dopo aver letto It.
Spagna, 1937. La milizia repubblicana irrompe in un circo e ne costringe i componenti a combattere al loro fianco nella Guerra Civile. Qui il pagliaccio scemo viene imprigionato e condannato a vivere in prigione per il resto dei suoi giorni, aiutato maldestramente dal figlio in un'evasione che però lo condanna sempre più. Nel 1973 Javier, il figlio del pagliaccio scemo, trova lavoro in un circo come pagliaccio triste, ma l'amore per la donna del pagliaccio scemo scombussolerà ulteriormente la sua già non semplice vita...
Mi avevano detto che Alex de la Iglesia era uno che doveva essersi fatto di cose molto pesanti durante gli anni delle superiori, ma non immaginavo di certo a questo livello. E anche in questo caso, l'affermazione ha una valenza sia positiva che negativa perché, inutile girarci attorno, questo Balada triste de trompeta è un film bellissimo ma al contempo anche bruttissimo, un mix strano e abbastanza insolito che ancora oggi, a qualche anno dalla visione (mai replicata per una strana forma di atavica paura), ancora riesce a scuotermi. E già questo per me basterebbe a promuoverlo, perché un film che col solo ricordo riesce a farti provare le stesse sensazioni che ti ha trasmesso la prima volta, fa il suo lavoro e si guadagna a prescindere la sufficienza - sì, A Serbian film mi fa ancora venire la nausea al solo pensiero, ma quello è un altro discorso che non voglio riprendere. Questa però rimane anche una pellicole che, per essere valutata con giusta dovizia, andrebbe divisa idealmente in due parti, che possono essere riconducibili alle due diverse definizioni che gli si possono dare, e a un finale che si ricollega alla prima. Una prima parte bellissima, introduttiva in un mondo immaginario, folle e fortemente malato, che riesce a destabilizzare con una regia e una fotografia stupenda e degli elementi che sembrano combaciare tutti alla perfezione. Perché il film, a cominciare da quei bellissimi titoli di testa, si impone di essere come una rilettura della Spagna dittatoriale, che nulla lascia e nulla concede, e di come tutti alla fine in una dittatura finiscano per essere delle vittime. Javier non sceglierà mai l'identità del pagliaccio triste, è un lascito che quel particolare periodo storico gli ha gettato addosso e che si porterà dietro per tutta la vita. Per quanto riguarda i protagonisti civili, quelli avulsi dalla vita e dal corpo militare, non c'è giudizio, manco nel crudele pagliaccio scemo che rovinerà la vita a Javier. Entrambi sono il frutto di un qualcosa che non è andato come dovrebbe, di un mondo così folle da rendere distorta anche una cosa che dovrebbe essere naturale e bella come l'amore. E così, in uno stile surrealista, a tratti dark e a tratti fiabesco, le vicende vanno avanti e tu, spettatore impavido, ti convinci di vedere quello che è destinato a diventare uno dei cento film più belli che hai mai visto. Strano, di solito non sono uno che esagera... vero? Poi però succede qualcosa di strano. Succede quel qualcosa che ti fa capire come mai in molti ti hanno parlato in quella maniera di de la Iglesia. Perché già il film era strano forte, ma da quel punto in poi lo diventa ancora di più. Diventa follia pura, cosa che in certi casi dà origine a dei veri e propri capolavori e, in altri, a delle improponibili schifezze. Qui se non altro fa rimanere gli occhi incollati allo schermo, perché ti viene da domandarti se sia possibile che il film vada ancora 'oltre' quello che è umanamente consentito sopportare alla vista, fino a che la pellicola riesce a perdere quello che era il discorso iniziale e si poggia unicamente su questo macabro gioco. E questo è stato il tradimento maggiore che mi ha fatto storcere il naso, quello di un film che ha iniziato un discorso particolare e ben costruito, e che nel suo andare si perdere nel suo stesso onanismo, come se il regista e sceneggiatore provasse unico e vero interesse a scioccare il suo pubblico, perdendo il senso del limite. Perché a conti fatti non c'era un vero e proprio bisogno di quel weird e di quelle situazioni semi-splatter, ogni cosa è bella finché ha la sua giusta proporzione, che qui manca. E dopo un poco, quando tutto sembra essere perso in uno scellerato nonsense, de la Iglesia fa finire la sua parabola (la sveglia arriva quando uno dei personaggi secondari dice: "Non siamo noi... è proprio questo paese che è malato!") spiattellandoti davanti i due simboli di questa folle avventura. Una scena così bella e potente che, però, è anche troppa da sopportare in una volta sola. Un po' come questo film, che nel suo andare nelle sponde più estreme del giudizio, finisce per essere un eccesso anche nella sua identità impossibile da definire.
Ma il suo bello sta anche in questo, nel suo non poter essere definito o valutato in maniera lucida. E se lascia qualcosa, qualunque cosa, che siano anche dei dubbi, allora vale la pena di essere visto.