Arrivano spesso dal Mali, dove vengono acquistati da intermediari che poi – una volta oltrepassato il confine con la Costa d'Avorio – li rivendono per l'equivalente di poche centinaia di euro ai proprietari delle piantagioni di cacao, dove i bambini vengono schiavizzati finché non ripagano un debito che non hanno chiesto di contrarre. Sono loro, bambini di età compresa tra i cinque ed i quindici anni, il gradino inferiore nella scala dello sfruttamento mondiale del mercato del cacao, un mercato dove neanche l'”equo-solidale” sembra essere davvero equo.
Nell'aprile dello scorso anno l'ong canadese Greenpeace fece partire una campagna-shock (denominata “Kit Kat Killer”) contro la multinazionale svizzera Nestlé – la più grande azienda alimentare del mondo – accusata di utilizzare olio di palma proveniente dalla distruzione delle foreste torbiere indonesiane da parte del gruppo Sinar Mas. Questo il video che accompagnava la campagna:
«Non sono come i meninos de rua dell'America Latina, che non hanno legami» - dice Alfonso Gonzales, ex direttore di “Terre des Hommes” - «qui dietro un bambino c'è sempre un adulto che li manda per strada a mendicare o a vendere».
Snodo del traffico di esseri umani che interessa il continente africano è il Sahara, dove si incrociano strade e destini dei piccoli maliani venduti in Benin, in Costa d'Avorio o in Ghana e quelle di nigeriani e camerunensi che vanno a lavorare in Libia o in Tunisia prima di tentare il viaggio della speranza nel Mediterraneo.
Sono circa 1,2 milioni i minori che – stando ai dati dell'organizzazione “Save The Children” - ogni anno vengono comprati per essere sfruttati nel mercato della prostituzione le ragazze o destinati a lavori più fisici – in particolare nel settore agricolo – i maschi. 5,7 invece, sono i milioni di bambini costretti al lavoro forzato.
A paesi come India, Cina – che guidano la speciale classifica – o Stati Uniti, lo scorso dicembre il Dipartimento del Lavoro americano ha dovuto aggiungere ben dodici paesi alla lunga lista dei settanta che ad oggi sfruttano il lavoro minorile: Angola, Repubblica Centroafricana, El Salvador, Etiopia, Lesotho, Madagascar, Mozambico, Namibia, Rwanda, Zambia e Zimbabwe, per un totale di 215 milioni di minori. In alcuni paesi come la stessa India o il Pakistan, il compito di chi combatte lo sfruttamento minorile è ancora più arduo, dato che questi paesi – non disponendo di una legislazione che fissi l'età minima per andare a lavorare – di fatto non considerano il lavoro minorile come “sfruttamento”.
Particolarmente importante è il lavoro che il Dipartimento e molte organizzazioni umanitarie stanno facendo nell'ambito dello sfruttamento minorile nelle piantagioni di cacao.
La prima tappa di questo specifico traffico è Korhogo, capitale della Regione delle Savane, nel nord della Costa d'Avorio, dove i minori arrivano – per lo più dal Mali, dal Burkina Faso o dal Niger provenienti principalmente da aree rurali come Zegoua, nella regione meridionale di Sikasso, fino al confine e poi in moto-taxi. In attesa di essere venduti dormono negli stessi magazzini in cui vengono stipate colle, vernici ed altro materiale tossico.
150 dollari e una bicicletta...
Il procedimento per introdurli nel mercato è più o meno lo stesso utilizzato nel racket della prostituzione della mafia nigeriana (che abbiamo visto qui: http://senorbabylon.blogspot.com/2011/02/how-much-la-tratta-delle-schiave-nel.html): i bambini vengono prelevati dalle loro famiglie da intermediari – “adulatori” li chiamano - per poche decine di dollari con la promessa che una parte della retribuzione (che comunque non viene quasi mai corrisposta) verrà girata ai genitori. Viene stipulato, di fatto, un contratto vero e proprio. Gli intermediari, rivendono poi i minori ai proprietari delle piantagioni guadagnandoci più o meno dieci volte la cifra spesa. Se, infatti, alle famiglie vengono pagati tra i 15 ed i 30 euro, i minori vengono rivenduti a non meno di 230 euro. Prezzo trattabile.
Il viaggio che dal Mali porta i bambini nelle piantagioni viene coperto da tre trafficanti: «uno li prende al confine, un altro gli fa oltrepassare il confine ed un altro ancora lo riceve a destinazione» dice uno di questi “intermediari” intervistato dal giornalista danese Svante Karlshøj Ipsen nell'ambito del documentario “The dark side of chocolate” (per la regia di Miki Mistrati e U. Roberto Romano) documentario che vi ripropongo nella versione inglese alla fine del post – purtroppo non ne esiste né una traduzione in italiano né un passaggio nella nostra televisione, a riprova di quanto sia provinciale anche la nostra mentalità mediatica. Ma questa è un'altra storia...
Nonostante la cultura africana veda ancora il lavoro minorile nella sua accezione di aiuto familiare – quello che d'altronde succedeva fino a non molti decenni fa in Europa – non sempre i genitori acconsentono al trasferimento dei figli nelle piantagioni di cacao. Sono infatti tra i quattro ed i dieci i bambini che ogni mese vengono rapiti dai trafficanti. Di questi, circa quindicimila sono quelli finora ritrovati nelle piantagioni, dove lavorano tra le dodici e le quattordici ore al giorno. Età compresa tra i cinque ed i quindici anni.
Il settore agricolo è il settore trainante dell'economia ivoriana – considerata una delle più prospere di tutto il continente africano: circa il 70% della popolazione è infatti coinvolta in questo settore. Nonostante i vari tentativi di diversificazione, i due prodotti principali sono il caffè ed il cacao, dai quali la repubblica ivoriana ricava circa il 20% del proprio Prodotto Interno Lordo (e costituisce circa il 40% delle esportazioni). Le coltivazioni di cacao coprono più di metà dell'intera superficie destinata all'agricoltura, strutturata ancora su piccoli produttori che per lo più si avvalgono di manodopera familiare o di braccianti provenienti principalmente dal Mali e dal Burkina Faso.
Uno sviluppo così importante del mercato del cacao è dipeso principalmente da due fattori: le condizioni climatiche che rendono particolarmente vantaggioso questo tipo di coltura e – a partire dal 1960, anno in cui la Costa d'Avorio ha dichiarato la propria indipendenza dalla Francia – una specifica volontà politica dell'allora presidente Félix Houphouët-Boigny (in carica dal 1959 al 1993) seguita poi anche dai suoi successori, che prevedeva – tra le altre cose – anche la vittoria di una serie di incentivi (buoni per l'acquisto di prodotti scolastici fitosanitari, fornitura di materiali agricoli, etc) a chi nell'anno si fosse rivelato come il maggior produttore di caffè e cacao.
I primi casi di sfruttamento minorile si sono registrati però solo a partire dal 1999, quando organizzazioni come Unicef, Save the Children o l'Usaid (agenzia umanitaria in odore di Central Intelligence Agency) denunciarono come circa 300.000 bambini fossero «impiegati in condizioni pericolose nelle piantagioni di cacao dell'Africa occidentale, di cui 200.000 in Costa d'Avorio».
Operazione BIA
Il contrasto allo sfruttamento dei minori in Costa d'Avorio ha visto un momento importante nel 2009, quando l'Interpol – il 18 e 19 luglio – ha condotto la prima operazione “su vasta scala” (l'operazione “BIA”, dal nome del fiume che scorre tra Ghana e Costa d'Avorio) che ha portato al salvataggio di circa cinquanta bambini di ben sette nazionalità diverse – a riprova di quanto esteso sia questo traffico - ed all'arresto di otto persone accusate di reclutamento illegale di minori.
Le operazioni di polizia, le denunce e la sempre maggiore presa di coscienza dell'opinione pubblica internazionale hanno portato pochi mesi fa l'Assemblea nazionale della Costa d'Avorio all'approvazione della legge 272 inerente al divieto di sfruttamento del lavoro minorile. Tra le norme è stato anche previsto il divieto di entrata o di uscita nel e dal territorio ivoriano di un minore se non accompagnato da uno dei genitori. Per vedere le effettive ripercussioni di questa legge, comunque, bisognerà aspettare ancora qualche tempo.
Sovranità (multi)nazionale
Ma come funziona il mercato del cacao?
Da paesi come la Costa d'Avorio, il Ghana, il Brasile o l'Indonesia, i grani essiccati del cacao vengono comprati ad un euro al chilo dagli intermediari locali che poi rivendono agli esportatori a 2,50 euro. Alla Intercontinental Exchange (la “borsa valori” nella quale si compravende il cacao) un chilo di cacao viene venduto a circa trenta dollari, più o meno venti euro.
Alle contrattazioni però non partecipano i produttori, ai quali è destinato un ricavo che oscilla tra il 4 ed il 6% del costo dell'operazione. Il resto si perde tra le casse delle multinazionali e quelle dei passaggi intermedi necessari a far arrivare il cacao in Europa, nonostante negli ultimi anni stia sempre più prendendo piede anche a questi livelli la contrattazione diretta tra le grandi multinazionali europee ed i produttori.
Più di una voce sostiene come più che delle forze armate il merito della destituzione dell'ex presidente vada attribuito proprio alle multinazionali, le quali si sono viste costrette a voltargli le spalle dietro alle minacce di boicottaggio da parte della società civile occidentale. Quel che è evidente da questo episodio, dunque, è quanto la sovranità nella Repubblica ivoriana sia in mano non al popolo ma alle multinazionali che – è bene ribadirlo – rappresentano circa un quinto del Prodotto Interno Lordo, e dunque una tra le principali voci nello sviluppo del paese.
Un impegno dalla doppia faccia
Proprio a causa della loro importanza nel paese (e dello scandalo suscitato nell'opinione pubblica dalle inchieste del “Knight Ridder”), nel 2001 le multinazionali formulano un protocollo – chiamato Harkin-Engel dal nome dei due parlamentari democratici americani che lo redigono – nel quale si impegnarono ad eliminare il lavoro minorile nell'Africa occidentale entro e non oltre il 2005. Al 2011 la situazione dello sfruttamento del lavoro minorile è ancora lontana dall'essere risolta.
«Il vero problema» - dice Timothy Newman, direttore della campagna contro il lavoro minorile portata avanti dall'International Labor Rights Forum di Washington - «è che il protocollo non è vincolante».
Negli ultimi anni, però, anche le multinazionali hanno iniziato a guardare in maniera differente al problema. «Le corporation» - dice Tensie Whelan, presidente della Rainforest Alliance, ong che si batte per la difesa delle foreste tropicali - «hanno capito che la certificazione non è solo una tattica di marketing. Controlli regolari sulle aziende per verificarne la conformità alle linee guida come l'uso prudente delle risorse idriche o il mantenimento della produttività del suolo, possono portare miglioramenti anche al prodotto finale nel lungo periodo».
Questo “cambio di visione” si deve a quello che in gergo si chiama “brand authenticity”, cioè quell'operazione che permette al compratore finale di sapere – ad esempio – quanta parte del denaro che spende nell'acquisto va effettivamente al produttore e quanto si perde nei passaggi intermedi o quali pratiche vengano utilizzate per la lavorazione della merce. Che è poi il concetto base del “fair trade”, quello che qualche anno fa arrivò in Italia – portato dall'ondata altermondialista appannatasi negli ultimi anni – come “commercio equo-solidale”. L'etichettatura di “equo-solidale”, però, non è sufficiente a certificare che il cioccolato che stiamo mangiando non sia stato prodotto dallo sfruttamento del lavoro minorile. In particolare se è proprio l'”equo-solidale” ad essere incriminato.
Nel marzo dello scorso anno Paul Kenyon, uno dei più importanti giornalisti investigativi della Gran Bretagna, è andato in Africa per il programma “Panorama” della BBC a verificare se effettivamente quella del “fair trade” sia una certificazione sicura. Quello che ha scoperto, però, è che neanche questo dà la sicurezza totale che il cacao che arriva in Europa sia lavorato rispettando la legalità, dato che è impossibile seguire l'intero tragitto che dalla piantagione lo porta sulle tavole europee o americane. Questo è il risultato della sua inchiesta:
Raccontare quel che ruota intorno al mercato del cacao, al suo sfruttamento ed alla corruzione che – come in tutti i traffici illegali – permette ai proprietari delle piantagioni in Costa d'Avorio di sfruttare il lavoro minorile può essere però molto pericoloso. Ne sa qualcosa la famiglia di Guy André Kieffer, giornalista franco-canadese di cui si sono perse le tracce il 16 aprile del 2004, mentre stava lavorando sulle connessioni tra il riciclaggio di denaro del governo ivoriano ed i proventi del mercato del cacao. Dal 2004 non se ne hanno più tracce. Non si sa se sia ancora in vita o se – più probabilmente – sia stato ucciso.
È interessante notare, io credo, come l'industria dei diritti umani che tanto si prodiga nel sovvertire regimi considerati "non occidentalmente democratici" (anche se sarebbe interessante capire chi - nell'epoca della sovranità di banche e multinazionali - possa davvero fregiarsi del titolo di "Democrazia") tenda se non proprio ad ignorare il fenomeno, quanto meno a non dargli l'importanza che - secondo la logica dei "dirittumanisti" - lo sfruttamento del lavoro minorile dovrebbe avere. D'altronde, se ci hanno chiesto di mobilitarci contro il governo iraniano per Sakineh perché non dovremmo farlo anche per i piccoli lavoratori maliani, burkinabé, indonesiani o per i menino de rua dell'America Latina? Non sarà che, tutto sommato, quei bambini fanno comodo anche al "democratico" Occidente?
«Gli aiuti hanno contribuito a rendere più poveri i poveri e a rallentare la crescita. Ciononostante, gli aiuti internazionali restano il pezzo forte dell’attuale politica di sviluppo e una delle idee più radicate del nostro tempo. Il concetto secondo cui gli aiuti possono alleviare la povertà sistemica, e che ci siano riusciti, è un mito. Oggi in Africa milioni di persone sono più povere proprio a causa degli aiuti, la miseria e la povertà invece di cessare, sono aumentate. Gli aiuti sono stati e continuano ad essere un totale disastro politico, economico e umanitario per la maggior parte del mondo in via di sviluppo … La carità che uccide è la storia del fallimento della politica postbellica di sviluppo»
[Dambisa Moyo, "La carità che uccide" - pagg. 22-23]
Quello che segue - come annunciato in precedenza - è il documentario dal quale ho preso spunto per questo post, "The dark side of chocolate". Fino a qualche giorno fa ne esisteva una versione esclusivamente in inglese che sembra essere stata rimossa da YouTube. Rimane questa, audio in inglese e sottotitoli in portoghese (in attesa che i nostri media si sveglino ed inizino a dare importanza a cose ben più serie della media del provincialistico dibattito nostrano. Ma questa è un'altra storia...)