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- Banditi di Sardegna
Non senza ragione. Da un’eternità di tempo arrivano sull’isola (da qualche decennio soprattutto d’estate) per cambiarci e per cambiarla, per depredarla di ogni sua bellezza quando questa sia mero orizzonte inondato di sole, spiaggia di rena finissima, oro strappato a forza dalle viscere insofferenti del Gennargentu; o per imbrogliarla con l’illusione di un benessere economico sempre e soltanto carezzato, titillato a suon di contributi pubblici distribuiti per costruire cattedrali nel deserto, prima di abbandonarle al loro triste destino come mostri biblici partoriti dalla mente di un genio sadico e votato al male. Un male diverso. Un male che delle comprensibili ragioni di riscatto personale di Samuele non ne hai mai saputo e non gliene è mai importato nulla, e a differenza di quel figlio delle nostre montagne che viveva la vita dell’animale braccato inseguito dai militi di Mussolini, se ne va in giro incravattato e vestito di tutto punto, a bordo di auto di grossa cilindrata, rispettato e riverito come un principe illuminato d’altri tempi. Perché spesso molto spesso la linea sottile che separa la balentia dalla rispettabilità è procurata solamente dalla nostra incapacità di agire e di reagire, di saper tracciare con equità il confine invalicabile, per tutti.
Anche per questi motivi, a sollecitare quella sorta di fascinazione con le avventure e le figure epiche dei nostri banditi era prima di tutto, credo, l’intuizione importante, la coscienza forte, che spesso, molto spesso, i veri malfattori non fossero loro. Erano altri. Erano coloro che muovevano le fila nello sfondo alla stregua di burattinai determinati ad imporre una legge forestiera su una terra, la nostra, insofferente ad essere domata, su degli spiriti, i nostri, che per elezione preferivano la libertà. Libertà che non era anarchia. Libertà che non era una mal interpretata lettura di ciò che è bene e di ciò che è male ma che era naturale istinto di conservazione delle nostre peculiarità. Barcarmenarsi dunque tra i severi moniti dei nostri genitori che ci raccomandavano, spesso con forza e un velo preoccupato negli occhi, a non coltivare simili miti e quel sentimento di ammirazione che contro ogni logica e ogni buon senso quei miti ispiravano, non era facile. Specie quando le gesta di quei filibustieri nostrani venivano raccontate da oratori ispirati nelle lunghe sere d’inverno quando fuori nevicava e nel camino frasche bruciate di sole e di vento si consumavano tra le fiamme di un fuoco vivace producendo uno scoppiettio simile ad una preghiera bisbigliata prima di spirare.
Portata com’ero ad idealizzare il mio mondo fatato, ad ammantarlo di quell’aria mitica che all’ombra del Gennargentu posava su tutto e su tutti, dalla quercia frondosa alle tombe dei giganti e delle janas, dal carro invariabilmente trainato dai buoi stanchi al vecchio imbriacone che rientrava a casa tardi con passo incerto e la memoria scaduta, è superfluo dire che io non sono mai riuscita a liberarmi completamente da una tale “pericolosa” fascinazione. Anche dopo avere lasciato il villaggio per incontrare universi diversi, popolati per lo più da criminali-davvero potenti e rispettati, armati di computer ultima generazione e di sostanziosi conti off-shore, quello strano incantamento non mi ha mai abbandonato. E fu così che quando uscì Tana di Volpe decisi di mandarne una copia a Graziano Mesina, a quel tempo ancora in carcere per gli antichi peccati. Lui lo lesse e mi rispose. Tempo dopo, durante la sua breve parentesi di libertà – lo incontrai in una rara occasione di festa procurata per palesargli il mio desiderio di intervistarlo. Lo incontrai anche successivamente per pochi minuti sempre in un momento di festa. Nel mio ricordo vive dunque un uomo di bassa statura, squadrato, gli occhi come una lastra di ghiaccio brillante posata per attuttire i lampi di uno spirito irrequieto, di uno spirito ad un tempo schivo ma determinato a coltivare il suo mito; di un uomo imbevuto di balentia fino alla punta dei capelli sia quando quella vuol dire cortesia, rispetto, senso dell’ospitalità sarda, sia quando quella vuol dire piena coscienza dell’esistenza di una legge millenaria e immutabile, iscritta a fuoco nell’anima di noi sardi, di tutti noi, capace di diventare marchio sulla nostra pelle e forza modellante in grado di determinare il destino di una vita. Di infinite vite. Delle nostre come di quelle altrui.
Ma tutto sommato quello mio strano incantamento non è venuto meno neppure allora: neppure quando ho toccato con mano la distanza tra l’uomo ed il suo mito, tra l’intrinseco limite degli uomini e le possibilità sostanziali della loro leggenda, la quale distanza è sovente uno spazio abissale da colmare sul piano pratico. Di sicuro un colpo formidabile alle mie fascinazioni di bambina è venuto però quando di ricente ho saputo che Graziano è stato arrestato per peccati molto moderni. Per peccati molto lontani da quelli che raccomanderebbe la nostra coscienza di Sardi. Di esseri liberi e rispettosi della nostra e dell’altrui dignità. Dopo di allora non ne ho saputo più nulla ma sono determinata in un tempo futuro a fare sì che mantenga la promessa di concedermi una intervista: lo deve a me direttamente, alla sua miglior natura di uomo balente, lo deve al nostro tentativo di figli di Sardegna di capire la nostra particolarissima essenza senza che intervengano i professorini continentali a spiegarcela. Al nostro tentativo di studiarla, di metabolizzarla, di domarla e se possibile di renderla migliore.
Scriveva Grazia Deledda nell’indimenticato incipiti al suo Elias Portolu: “Giorni lieti si avvicinavano per la famiglia Portolu, di Nuoro. Agli ultimi di aprile doveva ritornare il figlio Elias, che scontava una condanna in un penitenziario del Continente; poi doveva sposarsi Pietro, il maggiore dei tre fratelli Portolu. Si preparava una specie di festa: la casa era intonacata di fresco, il fino ed il pane pronti; pareva che Elias dovesse ritornare dagli studi, ed era con un certo orgoglio che i parenti, finita la sua disgrazia, lo aspettavano”. Ecco, per tanti versi noi formiche della Grande Montagna attenderemo il ritorno a casa dei nostri figli-balenti sempre alla maniera della famiglia Portolu. Senza erigerci a giudici ma coltivando speranza, anche quando quella è un filo così sottile che a momenti svanisce e si perde completamente, suo malgrado fatto polvere cosmica dagli straordinari riflessi di luce che da un’infinità di tempo produce ogni tramonto infuocato e bellissimo, dietro il Gennargentu.
Featured image, Paska Devaddis, banditessa sarda, dalla Rete.
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