Lo stewart (un biondino insipido di madrelingua anglofona) ci sorpassa a passo veloce con una maschera in mano. "Ehi! Scusa! Ehi!", lo chiama il marito della donna. Ché siccome l'assegnazione dei posti è quasi sempre contaminata dal Destino, parla con marcatissimo accento andaluso. Il biondino lo ignora bellamente, scatenando una serie di "No veee el capullo éste" che in altre circostanze mi farebbe sorridere. L'ape, intanto, entra ed esce dalla cappelliera sopra alla nostra testa, chiaramente indecisa sul da farsi. Forse c'ha un bagaglio a mano pure lei.
L'andaluso non demorde. Si incolla letteralmente al pulsante per chiamare l'equipaggio, comprensivo in modo incoraggiante nei confronti dei nostri gorgoglii. E, finalmente, lo stewart pare degnarci della sua attenzione. "Hay una abeja, there's a bee", gli indica il tizio. In due lingue, tanto per non sbagliare. Ma l'altro, che non sembra vedere nell'insetto una minaccia alla nostra incolumità, scuote la testa ridendo sornione. "Non ho tempo adesso, devo fare la dimostrazione di sicurezza", e se ne va. La scena che si verifica da lì a poco è destinata a ripresentarsi nei miei incubi per tutti gli anni a venire, come il frame emblematico del più riuscito film dell'orrore. La rivivo a rallentatore. Anche adesso, mentre la descrivo. L'ape che cade dalla cappelliera. La donna che si gira verso di me chiedendo "dov'è finita?". L'ape appoggiata sulla sua guancia, in alto, appena due millimetri sotto l'occhio spalancato. "Ce l'hai sulla faccia", riesco a dire in qualche modo. Dopo di che, scoppiamo entrambe a urlare. L'aereo sta decollando. La donna si dimena. Il marito andaluso prende la giacca da sotto il sedile e la tira in faccia alla moglie, con forza. Poi, si cimenta nel miglior zapateado flamenco per schiacciare l'insetto finito sotto i suoi piedi.
L'aereo è già alto in cielo.
"E' morta! SONO IL VOSTRO SALVATORE!", esulta.
"Ma sei sicuro che è morta?""Eccerto, non li vedi i pezzettini?""VI HO SALVATO! NON DIMENTICATE MAI CHE VI HO SALVATO". Dieci minuti dopo, il biondino insignificante ricompare al nostro fianco con un bicchiere in plastica di dubbia utilità.
"Where's the bee?", chiede annoiato.
"No more bee", risponde l'andaluso con aria sprezzante. E poi aggiunge, in spagnolo, "ché se aspettavo te stavamo messi bene, cabrón! Avrebbe punto mia moglie e ti avrei lasciato un reclamo che te lo saresti ricordato, hijo de puta". Insomma, non si può certo dire che il viaggio a Barcellona fosse cominciato bene. Anche perchè la città la sente, la tua diffidenza. Il tuo filo-ispanico malumore nei confronti delle velleità indipendentiste. L'antipatia per quelli che continuano a parlarti in catalano stretto anche se gli rispondi in castigliano. E poi, se sollevi obiezioni, ti zittiscono con un "qui siamo in Catalunya". Sì. Decisamente, Barcellona lo sa che - nonostante il mare - le preferisco Madrid. Che la trovo troppo pregna di italiani. Che ricordo ancora il giorno in cui mi hanno rubato il portafogli alla stazione di Sants. Sa che non sopporto i miei connazionali quando, appena nomini la Spagna, tirano in ballo sempre e soltanto lei. Come se non conoscessero altro. Come se il mondo finisse un po' lì. E' bella, bellissima. Ma è una bellezza snob con cui non sono mai riuscita a entrare del tutto in simbiosi.
La Sagrada Familia riflessa in una pozzanghera.
Agisce di conseguenza, perciò. Distruggendomi nei corridoi lunghissimi del metro. Imprigionandomi nel dedalo di viuzze dei suoi quartieri. Facendomi impiegare quasi tre ore di orologio per raggiungere l'ostello dall'aeroporto de El Prat. E proprio mentre, sudata e sfinita, pensi che ormai non possa andare peggio, ti ritrovi di fronte ad una doccia che si spegne ogni diciassette secondi. DICIASSETTE SECONDI, capite? Ché va bene l'ecologia. Va bene il rispetto dell'ambiente. Va bene il risparmio di acqua. Però, ammettiamolo, è stressante un casino. Ti fa sentire come Desmond quando, in Lost, deve premere il pulsante ogni tot secondi per garantire la salvezza del mondo. E tu mica la vuoi, tutta 'sta responsabilità. Per fortuna, dopo la tempesta torna sempre il sereno. E' non è vero solo in senso meteorologico. Chè mentre le nubi si diradano del tutto, finalmente, il viaggio prende la giusta piega. Ed è incredibile - penso- davvero incredibile come ogni volta che metto piede in Spagna (anche se solo per un paio di giorni, anche senza cercarlo) finisco per ritrovarmi immersa dagli appuntamenti. Incontri con persone nuove, sempre interessanti. Re-incontri con amiche che non vedevo da almeno sei anni. E' come se quel Paese fosse il fulcro del mio mondo. Se ci tenesse a riaffermare ogni volta che la maggior parte delle mie conoscenze, opportunità e passioni si concentrano lì. Lo avverto quando conosco Augusto, che vive di musica e mi ha trovata grazie a questo blog. Lo riaffermo seduta a un buon ristorante sul Paseo Maritimo accanto a Roberta, che è stata compagna di avventure ai tempi dell'Erasmus a Malaga e che ha girato il mondo per poi capitare qui. "Non tornerei mai in Italia", mi dice. E penso che, a conti fatti, per quale motivo dovrei tornarci io? Barcellona, in quel momento, forse mi ha persino perdonata. S'illuminava di sole, nella zona della città che in assoluto preferisco. Odorava di relax e pollo alla brace, e stranamente somigliava alla felicità. Una felicità che non sembrava aver intenzione di essere temporanea.