La piazza, uno spazio contenuto e domestico, con grandi case settecentesche di mattoni rossi animate da bianche finestre a ghigliottina, sembra racchiudere a fatica la vasta chiesa quadrangolare di St John, un candido gigante fatto di scale, colonne, archi, cornici e quattro campanili di gusto borrominiano.
Le proporzioni esagerate dell’edficio, non erano piaciute a Dickens, che, nel suo ultimo romanzo (Our Mutual Friend), lo descrisse simile ad ”un mostropietrificato, spaventosoe gigantesco, steso sul dorsocon le gambein aria”. Tuttavia, la chiesa, oggi, non solo è considerata un capolavoro del barocco inglese, ma anche testamento della maestria e confidenza di Thomas Archer, unico tra i suoi contemporanei ad aver viaggiato in Italia e aver cercato di introdurre linguaggi continentali innovativi, desunti da Bernini e Borromini, nelle sobrie e lineari architetture britanniche. La passione di Archer per le superfici animate da muri concavi e convessi e frontoni spezzati, anche se inizialmente affascinò i ricchi committenti, nulla poté contro il gusto per le auliche semplicità Palladiane. Basta superare le porte della chiesa di St. John, per trovarsi in uno spazio d’avorio, quieto ed evocativo, illuminato da vetrate trasparenti e scandito da bianche colonne corinzie, su cui poggia una semplice volta a botte (ricostruita in stile, dopo che la chiesa venne pesantemente bombardata nell’ultima guerra mondiale). Candelabri fiamminghi, dai bulbi e bracci di ottone brunito, rischiarano la navata, mentre una tenda cremisi scende drammatica sul palco, scenario di virtuosismi, cambi di tempo, recitativi, che si credevano persi, e le dolci note della viola da gamba.