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Bartolo Cattafi - Poesie e una dichiarazione di poetica

Da Ellisse

Bartolo CattafiTorno volentieri su Bartolo Cattafi, gia pubblicato QUI, un post che ha riscosso parecchi consensi tra gli amici che seguono il blog. Immagino che la ragione risieda nel fatto che Cattafi e la sua poesia assomigliano molto a uno di quei bisogni che sentiamo di avere senza averne ben chiaro l'oggetto, qualcosa che amiamo e ignoriamo allo stesso tempo. E non è strano, da un certo punto di vista, che luci e ombre (e qualche dimenticanza) accompagnino la sua fortuna critica. Eppure ogni volta ci affascinano i suoi versi limpidi, il suo essere cittadino libero ovunque e insieme la sua forte "sicilianità", la sua padronanza del linguaggio (spesso Cattafi scriveva di getto ed era il modo che preferiva) accompagnata alla consapevolezza della sua crisi e del continuo combattimento con la parola che il poeta, ogni poeta, sente inevitabile e infinito.

I testi poetici qui riprodotti appartengono alla raccolta L'osso, l'anima, mentre la dichiarazione di poetica, forse l'unica mai espressa da Cattafi, costituì una sorta di prefazione ai brani che Giacinto Spagnoletti ospitò nella sua antologia Poesia italiana contemporanea, edita da Guanda nel 1959.


Arcipelaghi
Maggio, di primo mattino
la mente gira su se stessa come
un bel prisma un bel cristallo un poco
stordito dalla luce.
Dal soffitto si stacca
neroiridato ilare il festone
delle mosche,
posa su grandi carte azzurre
riparte e lascia
ronzando isole minime, arcipelaghi
forse d'Africa e d'Asia.
Intanto in cielo sempre più si svolge
la mesta bandiera della luce.
Prima di sera l'unghia
scrosta l'isole
le immagini superflue.
Le carte ridiventano deserte.
Sottozero
A novembre andammo sottozero.
   Il fiume
aveva foglie gialle di platani e colori
su cui l'occhio patisce: acciaio, bitume,
quello della biscia
che scorre lungo i sogni velenosi.
Nella cabina da tempo sommersa (primo
piano d'albergo, rue de Tours)
indossammo la maglia più pesante,
mangiata dalle tarme.
L'unico modo per fingerci vivi
era colpire il cuore: poi tirare
l'ossidata maniglia dell'allarme.
Pistolet automatique
Marca MAB modello
D brevettato
calibro sette
e sessantacinque
fabbricata in Francia
portata da un soldato
tedesco che la ebbe
dal Reich
rubata in un'isola per gioco
da un ragazzo
indi
denunziata al questore che le mise
in regola le carte.
Buon fuoco buon fumo se la mano
non trema
se per un fatto personale il dito
è allegro e pronto sul grilletto.
Libera scelta tra noi stessi e il mondo.
Giustizia
Decretammo una fine
a buon diritto.
Il boia venne subito.
I patti erano un lavoro
pulito, presto e bene.
Il boia accondiscese.
Quando tutto fu pronto,
la scure in alto, tutto
disposto sopra il ceppo,
diventammo perplessi
ci pentimmo,
orrore e amore urlarono,
s'opposero.
Tentammo d'interrompere l'azione.
Il boia fu inflessibile. La scure
doveva scendere, la macchina
non scattava a vuoto.
Allora offrimmo un cambio,
proponemmo una permuta con teste
disponibili, docili, innocenti.
La bestia
E come fai a sapere a prevedere
che se affondi il braccio
in un'acqua di pretto celeste
scatta su dal nulla
con tumulto di bolle l'immonda
bestia che ti azzanna
e per sempre ti avvince il braccio.
Dolcemente golosa del tuo sangue
dovrai nutrirla nasconderla coprirla
con la manica della giacca.
Là dietro
Là dietro arroccati
tranquilli veterani istupiditi
non capimmo niente
pur avendo pratica di guerra
di ordigni complicati
di come va la vita lungo il fronte.
Quando snidarono la nostra
colonia di pidocchi
con l'orrenda parabola dell'obice
fummo appena in grado
di rigirare in mano le macerie
contemplarle
dedicare a noi stessi molta pena.
L'osso
Avanti, sputa l'osso:
pulito, lucente, levigato,
senza frange di polpa,
l'immagine del vero,
ammettendo che in questo
unico osso avulso dal contesto
allignino chiariti, concentrati,
quesiti fin troppo capitali.
Credo che tu non possa
farcela; saresti
cenere nella fossa,
'anima da qualche parte.
Perderci la vita
Perderci la vita
battendo quel solo chiodo
estendendo il dominio a quel centimetro
là concentrandolo
sprofondare
fare l'abisso con le proprie mani
spezzettare in atomi
molecole
rompere anche gli atomi
la polvere che resta sulle dita
ti segna in eterno
indossa guanti
metti le mani in tasca
tagliati le mani.
La tigre
In molti modi e maniere,
anche mettendo da canto
i muscoli inferiori,
devi camminare
andare avanti o indietro
ma marciare,
con la frusta col pungolo a pedate,
passo trotto galoppo,
e non è vero
il tuo non ce la faccio.
L'esse esse la vita l'opportuna
puttana ti tengono in funzione.
Poi sulla tua funzione cala il sipario,
velario di mistero sullo straccio
umano che non vuole
essere atleta, eroe,
acciaio di ardue prestazioni.
In qualche luogo qualcuno
impartisce impulsi,
pesa, coordina, misura,
non ci è dato vedere in quale cielo
agisca la macchina armoniosa.
Ai nostri deboli lumi
appare la ferocia del congegno,
la calda tigre
che cavalchiamo a pelo.
Brindisi
Non prendemmo alcuna decisione.
Ai vetri dei binoccoli apparivano
cose confuse
discordi avvenimenti
i prò e i contro in lotta nella polvere.
Credemmo d'avere ancora tempo.
Una notte si risolse il nodo,
sopravvento degli uni
fuga degli altri.
Cavalieri giunsero alle porte,
posero precise condizioni.
Si trattava di bere o di affogare.
Quando capimmo
capire non contava.
Bevemmo, brindammo a questa sorte
Sulla testa di tutti
Colpi di mano, sonni, soprassalti,
monotone manovre.
Quando qualcuno ci porta notizie
le chiudiamo in busta,
passiamo le linee nottetempo,
le vendiamo al nemico.
A sua volta qualcuno dei nemici
compie il cammino inverso,
parla coi nostri,
disputa sul peso
contratta il prezzo della nostra testa.
Non capita nulla non succede
un giudizio per nessuno,
sulla testa di tutti pende qualcosa.
Il pesce volante
Saltò per sbaglio entrobordo
in mezzo a una cattiva compagnia
che come squali seguiva
luride rotte
ignorava il mare
non la scia che usciva
dal ventre delle navi.
Sotto un sole dannato
morì presto.
Tutto mangiammo
testa coda budella
dell'essere alato.
Timoniere
Quindi andai da lui e gli dissi
Ti prego accosta a dritta
è quello l'arcipelago del cuore.
Mi guardò e sorrise,
mi diede un colpo sulla spalla,
invertì come un fulmine la rotta
e fuggimmo agli antipodi dell'isole
mettendo nelle vele molto vento.
Aveva al timone mani salde,
occhi acuti per tutto,
isole, scogli, cuori.
Comunque ero caduto in tentazione.
Era questo lo scopo delle isole.
Una dichiarazione di poetica
Cominciò che avevo 21 anni. Forse furono le mollettiere, gli scarponi chiodati, le piaghe ai piedi mentre facevo atletica e il rancio insufficiente; forse fu il crollo nervoso, l'ospedale militare, i giri di chiave dell'infermiere-secondino, i tonfi degli epilettici che stramazzavano al suolo, i passi dei sonnambuli, gli urli dei simulatori e gli occhi di vetro dei pazzi. Forse fu colpa di tutto questo o di altro, di qualcosa che dentro non mi funzionava nel debito modo, ma appena ottenni la licenza di convalescenza e giunsi in Sicilia (era la primavera del '43), la guerra cominciò a non esistere più per me come evento eccezionale, mostruoso.
Cominciai a scrivere versi non so come, ero sempre in preda a non so quale ebbrezza, stordito da sensazioni troppo acute, troppo dolci. Le mille cose che  quella snervante primavera mi proponeva erano magicamente gravide di significati, ricche di acutissime, deliziose radiazioni. Come in una seconda infanzia cominciai a enumerare le cose amate, a compitare in versi un ingenuo inventario del mondo. Tutt'intorno lo schianto delle bombe e le raffiche degli Hurricane, degli Spitfire... Me ne andavo per la colorita campagna nutrendomi di sapori, aromi, immagini; la morte non era elemento innaturale in quel quadro; era come un pesco fiorito, un falco sulla gallina, una lucertola che guizza attraverso la viottola.
Scrissi così i miei primi versi. Poi il tempo passa, gli anni dietro gli anni, gli incontri, le letture, le vicende, i viaggi, la minuta storia che  giorno dopo giorno si viene costruendo (o solo illuminando?), provando e perseguendo i miti, gli emblemi che ci appartengono, ripudiandoli, riprendendoli, coinvolgendone altri nel gioco dell'impegno vitale, sempre seguendo gli interessi che più premono, le secrezioni delle ghiandole, i lasciti ancestrali, i diagrammi sulle interne cartelle, i furori e gli amori mutevoli e fedeli, le tappe in avanti, le tappe a ritroso del comune cammino.
La storia dei miei versi non può che coincidere con la mia storia umana. Rifiuto e considero vietate le fredde determinazioni dell'intelligenza, le esercitazioni (sia pure civilissime), le sperimentazioni che furbescamente o ingenuamente tentano l'impossibile colpo di dadi.
Non mi riesce di capire il "mestiere" di poeta, i ferri, il laboratorio di questo "mestiere". Quella del poeta è secondo me una pura e semplice condizione umana, la poesia appartiene alla nostra più intima biologia, condiziona e sviluppa il nostro destino, è un modo come un altro di essere uomini. Di là dagli schemi mentali, dalle velleità, dalle frigide volizioni e dalle sapienti masturbazioni, la poesia nasce sotto il segno apparente dell'imprevisto (vi sono misteriose maturazioni, catalizzatori non sempre identificabili, forze e forme insospettate che si liberano rompendo lo stato di "quiete", che scattano e si scatenano secondo le linee d'un disegno naturale a cui bisogna con coraggio arrendersi, individuandolo e potenziandolo, per quanto consentito, con accorta vigilanza in mezzo alla selva allettante degli inganni, dei miraggi, delle false rappresentazioni). Poesia è dunque per me avventura, viaggio, scoperta, vitale reperimento degli idoli della tribù, tentata decifrazione del mondo, cattura e possesso di frammenti del mondo, nuda denuncia del mondo in cui si è uomini, cruento atto esistenziale.
Ma forse, al giorno d'oggi, mi sbaglio, sono un ingenuo, un sempliciotto: ben altri discorsi, forse, dovrei fare. Ho comunque mille ragioni più di Apollinaire per invocare pietà (1).
Bartolo Cattafi
(1) forse Cattafi allude ai versi "Pietà per noi che sempre combattiamo alle frontiere // Dell’illimitato e dell’avvenire / Pietà per i nostri errori e per i nostri peccati", in G. Apollinaire, La belle rousse (n.m.)
Fonte: Poesia, Anno III, n.27, Marzo 1990


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