Quando il piangere diventa una lagna
In questi ultimi giorni sento giungere da ogni dove lamentele di ogni tipo, ovviamente tutte inerenti il nostro campo e per la precisione da parte di vari autori. Tuttavia, la lamentela più sovente è quella che scaturisce nel momento stesso in cui un manoscritto viene rifiutato da questa o quella casa editrice e dunque non trova sbocco verso la pubblicazione più classica. Orbene, apriamo una piccola polemica in merito e per me, che amo davvero poco polemizzare, già questo fatto la dice lunga. Innanzi tutto a voi scrittori, poeti e autori di qualsiasi genere vorrei chiedere: ma per chi state scrivendo? O meglio, per quale strano motivo un giorno avete deciso di sedervi dietro a uno schermo e avete cominciato a digitare sopra a una tastiera?
Quello che mi chiedo è: nel vostro intento iniziale era già scritto a chiare lettere che stavate componendo un testo solo per il puro gusto di vederlo pubblicato o se, come succede nella maggior parte dei casi, stavate in realtà mettendo nero su bianco un bisogno personale, il quale erompe immancabilmente da una incontenibile necessità interiore. L’iter più comune a tutti, ovvero il procedimento che porta un comune mortale a scrivere un racconto, un romanzo, una prosa o una poesia, scaturisce quasi sempre dall’impellente esigenza di lasciare che le emozioni giungano all’esterno, una sorta di urgenza che porta immancabilmente a dover mettere per iscritto quanto accade intorno a noi e quanto questi avvenimenti possano influenzare il nostro quotidiano, procurandoci pene, sofferenze e, in rare eccezioni, gioie e soddisfazioni. Scrittori (e poeti ovviamente) si diventa per necessità, per esorcizzare il malessere giornaliero, per psicanalizzare il nostro IO senza doverci esporre in prima persona. Si scrive per opportunità, per cercare di sopravvivere in un mondo che aborrisce i sogni e uccide le speranze, per poter vivere, almeno negli attimi in cui restiamo intrappolati nelle nostre stesse trame, quei rari momenti di gioia e soddisfazione che diversamente faremmo fatica nella vita reale a ottenere. Si compone per trarre fuori dal nostro animo quel veleno che, lasciato lì a marcire, ci porterebbe alla pazzia o a una dipartita prematura.
E in tutto questo, difficilmente si inizia a scrivere pensando: “Ecco, scrivo il romanzo del secolo e diventerò famoso!”
Il pubblicare è già un passo successivo, un bisogno che avviene quando il solo scrivere non basta più. Quando, guardando e riguardando la nostra presunta opera tutti i giorni, ci chiediamo se qualcun altro potrebbe essere interessato a leggerla e a provare le nostre stesse emozioni. Lavoro deleterio in questo caso lo fanno gli amici e i parenti che, non potendo dirci che abbiamo scritto un ammasso di stupidaggini, lodano un lavoro che magari andrebbe rivisto e corretto da dei professionisti seri, ma questo è un altro discorso. Quando si inizia allora a piangersi addosso? Quando, pensando di avere fra le mani il manoscritto che ci condurrà direttamente al premio Nobel, iniziamo a cercare qualcuno che potrebbe pubblicarlo. Ebbene, ecco che la realtà improvvisamente diventa crudele e matrigna e rifila le prime bastonate sui denti.
Signori miei, è proprio a questo punto che torno a ripetervi la domanda: per chi diavolo avete scritto? Perché se lo avete fatto per voi stessi, per un proprio appagamento personale, allora continuate a farlo, in barba a chiunque vi dica di no. Fregatevene e continuate per la vostra strada. Tuttavia, se la vostra velleità verte solo ed esclusivamente sul fatto che vi piace apporre la dicitura scrittore o poeta dopo il vostro nome, allora qualche meccanismo si è inceppato strada facendo e le lamentele non solo non sono più giustificate, ma diventano veramente inopportune. Esistono altre strade, se il problema è solo questo, per pubblicare il vostro libro senza dover attendere la carità (o la fregatura) di nessuno! Il problema invece è, e ve lo dico a chiare lettere, che mancate di fiducia in voi stessi. Mancate di quella giusta misura che vi fa comprendere chi siete e che cosa siete in grado di fare. Il continuo bisogno di avere conferme dagli altri vi rende dei questuanti in cerca dell’obolo pietoso o, peggio ancora, dell’obolo ingannevole. Mancate della serenità necessaria per rendervi conto del vostro reale potenziale e mancate della pazienza che scaturisce dal lavorare sodo e costantemente e che permette di raggiungere un fine. Viviamo in un’epoca in cui si vuole tutto e subito, in un mondo in cui ognuno vuole emergere a gomitate e a qualsiasi costo, dimenticandosi fondamentalmente di sé stesso e di nutrire la propria anima. Comprendo che a stomaco vuoto è difficile nutrire l’anima, ma ridurre sempre tutto a puri fattori materiali deprezza voi stessi e il vostro lavoro. Inoltre, ciliegina sulla torta, per scrivere un testo che abbia veramente la qualità necessaria per poter essere sottoposto al Nobel o al premio Pulitzer… ce ne vuole… e ce ne vuole davvero tanto.