Di buono c’è che si è trovato il coraggio di affermare che si è di fronte ad una svolta epocale, che segna il passo ad un’evoluzione della civiltà.
Il modello economico del libero mercato, senza più rivali, si è prima imposto, poi è collassato. Questo per un semplice motivo, non aveva, come si sosteneva nel 900, le fondamenta. Non è vero che la libertà d’impresa, in un libero mercato, garantisce a tutti, almeno quelli con qualità, di potersi affermare. Era vero, al contrario, che un livello di benessere generalizzato e diffuso, permetteva forme di evoluzione sociale. Peccato che queste ultime non siano state sempre sostenibili.
Tra l’altro non è nemmeno vero che capitalismo e comunismo fossero le uniche forme di mercato possibili. Il socialismo, almeno quello non invasivo, che ha ispirato le costituzioni europee, tra cui quella italiana, ha ricoperto un ruolo non secondario. Nei cosiddetti Stati occidentali, il diritto alla salute, le garanzie su condizioni minime di sopravvivenza, il diritto all’istruzione non erano e non sono riconosciute ovunque. Ad esempio non lo sono in America. La “seconda carta dei diritti umani”, annunciata in uno degli ultimi discorsi alla nazione del Presidente Roosvelt, è rimasta carta, e non si è mai tramutata in diritto. E’ anche vero che la democrazia, da sola, non è in grado di garantire crescita economica e benessere diffuso. Non tutti gli Stati democratici sono “ricchi”.
Oggi si è in una fase di transizione, per cui la classe politica democratica da salvatrice è diventata “imputato”. In effetti, quando i colossi mondiali della finanza si recarono nei palazzi della politica con la coda tra le gambe, la politica si era ripromessa di regolare i loro comportamenti. Purtroppo, non lo fecero, almeno non fino in fondo.
Con le Istituzioni nazionali indebitate, tanto da essere a rischio di fallimento, c’è solo una chiave di lettura che può sintetizzare la vicenda: le banche hanno scientemente e volutamente scaricato sugli Stati i loro dissesti e con questo li hanno soggiogati. Così, il sistema politico è diventato succube di quello finanziario. Più o meno come accadrà al sistema economico cinese che, finanziando il debito pubblico americano, da salvatore si ritroverà nella condizione di Stato depredato. Non è detto che accada, ma non è escluso.
Infatti, se c’è un piano dietro a questo sistema, è evidente che esso non abbia bisogno di un ulteriore modello economico alternativo, perché possa affermarsi. Dalla democrazie si è passati ad una plutocrazia dittatoriale.
Il paradosso è che gli istituti di credito si sono ripresi, con una breve convalescenza, mentre i cittadini comuni fanno i conti con sfratti, disoccupazione, precariato e povertà crescente. L’altra parte del mondo, quella che noi occidentali consideriamo sempre “misera”, sta vivendo scossoni sociali che si manifestano con rivolte e guerre civili.
Mettendo insieme l’intero scenario l’unico filo conduttore delle sorti dell’umanità è la profonda frattura che si è creata tra la gente, il popolo, e chi governa, cioè la classe politica. Meno evidente è il “sacco” delle istituzioni finanziarie, che hanno un nome e cognome. Queste ultime stanno concentrando la maggior parte delle risorse del pianeta, togliendole alla collettività. Questo vale per la ricchezza monetaria, ma anche per altre tipologie di beni. La biodiversità del pianeta, non è un caso, è conservata e costudita in una “banca dei semi” norvegese.
Chi detiene il controllo di quella banca, detiene il controllo sull’unico patrimonio che tutti dovremmo preservare e di cui nessuno dovrebbe approfittare. Ma tale concentrazione, necessaria per l’imposizione di un potere mondiale, sarà sufficiente per superare la crisi economica?
Sono sempre più sostenute le richieste che vi sia un’autorità internazionale che controlli le economie nazionali, verifichi il valore delle monete, tenga conto dei movimenti finanziari.
Per questo compito esistono già istituzioni internazionali: ad esempio il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, la Banca Europea (almeno a livello continentale). Ma il vero problema è: chi le controllerà?
Nessuno è in grado di garantire il loro comportamento etico e non è un caso che tutte queste realtà siano lontane e distanti dai cittadini.
Da un lato si commissariano i governi nazionali. Dall’altro non esiste una alternativa internazionale capace di sostituirli per il benessere comune. La globalizzazione, in questo, ha già fallito. Solo un vero trauma, capace di piegare l’opinione pubblica, potrebbe essere in grado di cambiare la situazione. Poichè le masse reagiscono collaborando, solo quando temono e vivono situazioni di forte disagio. Il modo migliore di trasformare degli uomini in un branco di pecore è traumatizzarli fino ad annullarli. Ne vale la pena?
Una proposta etica, alla follia, è contenuta proprio nell’enciclica “Caritas in veritate”, in cui si afferma: “per non dare vita a un pericoloso potere universale di tipo monocratico, il governo della globalizzazione deve essere di tipo sussidiario, articolato su più livelli e su piani diversi, che collaborino reciprocamente… sia per non ledere la libertà, sia per risultare concretamente efficace”.
Il profitto materiale non può e non deve essere l’unico metro di misura e l’unico obiettivo del potere economico e finanziario. Il vero “valore sociale” non ha declinazioni materiali, al contrario, è un bene “prettamente immateriale”. Questa questione è più che decennale e, se il governo mondiale non ha una guida etica e solidale, non solo non basterà per superare la crisi economica, ma sarà sufficiente a se stessa per autodistruggersi, tanto quanto è avvenuto con comunismo e capitalismo.