Batman al cinema: una carriera di alto profilo – Prima parte

Creato il 18 novembre 2014 da Lospaziobianco.it @lospaziobianco

Batman, un supereroe atipico 

Batman è un supereroe atipico almeno per un paio di motivi. Il primo è che si tratta di un super eroe senza superpoteri. In questo dimostra una diretta derivazione dal padre di tutti i super eroi, L’Uomo Mascherato di Lee Falk (disegnato, all’inizio, da Ray Moore), con il quale condivide l’origine sanguinosa della sua vocazione e l’intento di porsi come fautore di una “giusta” vendetta contro il crimine. Con l’Uomo Mascherato condivide anche il tono violento e dark delle avventure dei suoi primi anni, anche se non possiede l’alone mitico ed esotico che caratterizzava il primo eroe in calzamaglia.


Il secondo dei motivi è la presenza di Robin, il ragazzo meraviglia con cui forma il cosiddetto duo dinamico. Normalmente, i super eroi lavorano da soli o formano team più (Marvel) o meno (DC) litigiosi con altri loro pari. Difficilmente si associano a ragazzetti e il fatto che il costume di Robin sia uno dei più impresentabili e kitsch del pur vasto e improbabile campionario del mondo supereroistico ha dato la stura a ipotesi e commenti della più varia natura1. Tanto è vero che in epoche più recenti, quando ha cercato di recuperare una dimensione più lugubre e seriosa, Batman si è spesso separato da Robin, anche lui sottoposto (nei fumetti) a diversi lifting caratteriali.
Ma un’analisi di questo e degli altri aspetti intrinseci del fumetto la lascio ai batmaniani che, per la verità, se ne sono già occupati parecchio. A me, qui, interessa soprattutto, a mo’ di premessa, porre l’accento sulla relativa diversità che contraddistingue Batman nell’alveo dei supereroi. Batman supplisce alle sue carenze di potenza – è solo molto allenato e non ha, come detto, neanche lo straccio di un super potere – con una serie di gadget tecnico-pratici divenuti oggetto di svariate gag da più parti, compresi gli in-jokes del periodo light sullo schermo piccolo e grande (gli anni ‘60). Dal batarang alla batmobile alla batcaverna, sappiamo che tutto ciò che è di Batman potrebbe essere caratterizzato dall’apposizione del prefisso bat. La similitudine bondiana è stata largamente percorsa dagli anni ’60 in poi, ma questa caratteristica del personaggio era preesistente e per certi versi originale.
Al cinema, Batman ha inizialmente avuto un destino non dissimile da quello di altri personaggi dei fumetti, ma poi si è distinto per due serie ad alto budget e alto gradimento del pubblico che hanno in sostanza ridefinito il cinema supereroistico: ciò lo rende un personaggio di particolare interesse per un’analisi critica dal punto di vista cinematografico.

Batman: i serial

Realizzato nel 1943 in quindici episodi, il primo serial, intitolato semplicemente Batman, segna l’ingresso del supereroe nel grande schermo, seguendo l’esempio di praticamente tutti i grandi personaggi del fumetto americano di quegli anni.
La presentazione del personaggio è adeguatamente tonitruante ed esplicativa, con la stentorea voce narrante a illustrare le qualità del duo dinamico (Batman e Robin), che collabora con la polizia presentandole criminali impacchettati e pronti per la galera (con tanto di logo batmaniano impresso in fronte, a imitazione del segno del teschio dell’Uomo Mascherato). Bruce Wayne simula d’essere un pigro playboy in stile don Diego de la Vega (più che Clark Kent) per non indurre sospetti sulla sua persona, ma in realtà, come Batman, ingaggia una serrata lotta contro il temibile dottor Daka, il primo cattivo cinematografico batmaniano.
Gli effetti speciali sono semplici ma efficienti: per fare un esempio, l’auto dei rapitori cambia colore e targa continuando a viaggiare. Il ritmo narrativo non è molto sostenuto, ma le cose si tengono in movimento con i classici metodi del serial: inseguimenti d’auto a moderata velocità, corse e zuffe, con qualche elemento particolare come un tunnel dell’orrore giapponese a rendere l’idea della nazionalità del cattivo. Non bisogna dimenticare, in effetti, che si era in tempo di guerra. Il dottor Daka, non appena compare, si lancia in una tirata antidemocratica e pro giapponese classicamente da cattivo dei fumetti (e dei serial). Baffetti alla Mandrake, capelli brillantinati e parlata finto-jap, Daka non è però un cattivo di grande spessore, nonostante sia interpretato da un ottimo attore come J. Carroll Naish2,  che fa quel che può con un ruolo sin troppo di maniera. La prerogativa di Daka – non dissimile da quella di altri cattivi del periodo3 – è quella di saper trasformare elettronicamente uomini normali in zombie, privandoli della capacità di pensare. Nell’ambito del suo piano criminale, Daka rapisce un importante scienziato e riesce, con un apposito siero della verità, a carpirgli delle importanti informazioni. Ciò rende necessario il fattivo intervento di Batman e Robin.
Lewis Wilson è un Bruce Wayne del tutto ordinario e un Batman adeguato, mentre Douglas Croft è un Robin il cui unico elemento caratteristico è una capigliatura sparata. Le loro scene d’azione sono sufficientemente movimentate, ma non troppo ispirate. Di buono c’è – ai fini del realismo – che se le prendono di santa ragione più di qualche volta da parte di semplici banditi in giacca e cravatta. Gli elementi fondanti principali del fumetto ci sono: dalla batcaverna al maggiordomo Alfred, ai costumi più o meno somiglianti. Ma il budget modesto non permette la creazione di una batmobile adeguata. Il tono è spesso leggero, con svariati momenti di umorismo a punteggiare l’azione. Nell’insieme, niente di eccezionale, ma in linea con la media dei serial dell’epoca. Dirige con competenza lo specialista Lambert Hillyer, che tra i titoli di distinzione del suo curriculum ha due horror come Il raggio invisibile (1936) con Boris Karloff e, in particolare, l’elegante e stilizzato La figlia di Dracula (1936).

Il secondo serial, intitolato Batman and Robin (1949), vede un totale rinnovo del cast, ma mantiene le caratteristiche tipiche del precedente. Bruce Wayne è sempre un pigro playboy e Dick Grayson il suo giovane amico. Su di loro veglia il maggiordomo Alfred, il solo che conosce la loro vera identità. Il commissario Gordon (Lyle Talbot)4) invia il bat-segnale per richiedere l’aiuto di Batman: alcuni banditi hanno assaltato il laboratorio di ricerca elettronica dove si trova il segreto di un radiocomando in grado di controllare ogni automezzo nel raggio di cinquanta chilometri. Anche stavolta Batman non ha una batmobile figurativamente all’altezza, ma, assieme a Robin, si lancia comunque all’inseguimento dei criminali. Inutilmente. Il professor Hammill (William Fawcett), un antipatico sulla sedia a rotelle, aveva progettato il radiocomando: quando sa che è stato rubato si infuria ed esprime il suo sdegno verso autorità così incompetenti. Ma in realtà Hammill, grazie a una poltrona a raggi, è in grado di recuperare segretamente la forza per muoversi e camminare. Subito compare Wizard, un super cattivo mascherato che dispone del radiocomando e comincia a usarlo con la sua banda per rubare diamanti. Batman e Robin si mettono in azione per contrastare Wizard. La storia è maggiormente articolata e il cattivo più significativo, grazie anche a una minaccia più fantascientifica, ma l’anima del serial non cambia e rimane legata a rivolgimenti continui (nonché prevedibili) e a meccanismi risaputi. Il cambio di cast non porta variazioni qualitative di particolare interesse e il prodotto finale resta sostanzialmente confinato a un’aurea mediocrità. Compare Vicki Vale, interpretata da Jane Adams, fotoreporter intrepida e bisognosa di protezione da parte del duo dinamico5.

Dopo una lunga pausa il trionfo del pop: la serie televisiva e il film

Batman ritorna sugli schermi, questa volta televisivi, con una serie che si dimostra subito azzeccata nei toni e negli esiti. Colorata e vivace, ottiene un buon successo e si protrae per tre stagioni (dal 1966 al 1968): una durata non straordinaria, ma comunque significativa dell’appeal dimostrato dal personaggio.
Il successo è tale da generare anche un lungometraggio che viene distribuito al cinema, con il medesimo cast della serie televisiva. Batman (1966) di Leslie H. Martinson è un film pienamente figlio dei suoi tempi, caratterizzato da un simpatico gusto pop e dalla predominanza di un’ironia che tutto domina e sovrasta.
Quattro temibili super criminali – il Jolly (Cesar Romero), l’Enigmista (Frank Gorshin), il Pinguino (Burgess Meredith) e Catwoman (Lee Meriwether) – si coalizzano per realizzare un piano temibile, anche se del tutto privo di senso. In possesso di un’arma micidiale in grado di deidratare le persone e di ridurle a mucchietti di polvere, ne approfittano per liofilizzare e rapire l’intero Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, chiedendo un miliardo di dollari di riscatto per ciascuno dei nove membri. Sulle tracce dei criminali ci sono però, con la benedizione del commissario Gordon (Neil Hamilton), nientemeno che Batman (Adam West) e Robin (Burt Ward), il duo dinamico.
Realizzato, come detto, sulla scia della serie televisiva6 con gli stessi interpreti, il film è una sarabanda pop caratterizzata da uno spirito anarchico e libertario – rispetto alle forme e agli stilemi del cinema super eroico – che lo rende ancora oggi unico. L’ironia e l’umorismo la fanno da padroni, prendendosi gioco dei personaggi, di ciò che rappresentano e del genere cui appartengono. I dialoghi sottolineano senza sforzo l’enfasi, l’idiozia e l’assurdo che vengono invece normalmente presi sul serio nelle avventure supereroistiche. I super criminali sono tratteggiati con una vivacità esasperata e decisamente sopra le righe da un cast che sembra spassarsela alla grande. Burgess Meredith7) è perfetto nel ruolo del Pinguino, mentre Lee Meriwether8 sparge sensualità in quello di una Catwoman del tutto inutile dal punto di vista dell’efficacia. Più di maniera, ma comunque efficaci, un irriconoscibile Cesar Romero (di solito sobrio e serio) nel ruolo del Jolly e Frank Gorshin in quello di un esagitato e inetto Enigmista. Di fronte a tanta gigioneria, Adam West è impagabilmente compassato nella parte di Batman, seguito con solo un tantino di eccesso da Burt Ward in quella di Robin. Certe trovate sono irresistibili, come quando Batman decide di compiere di corsa il tragitto sino alle Nazioni Unite per evitare di rimanere bloccato nel traffico con l’auto e Robin lo segue a malincuore tradendo ben presto dolori alla milza. Lo spirito dei fumetti viene ricreato per essere amabilmente sbeffeggiato. Le onomatopee compaiono sovrimpresse sullo schermo nella scombiccherata lotta finale sul ponte del sottomarino a sottolineare i colpi scambiati tra buoni e cattivi. La storia è totalmente insensata, ma è solo un pretesto per una parodia amabilmente trattenuta, che ha forse l’unico difetto di durare un po’ troppo e di diluire quindi in eccesso le sue carte. Alcuni aspetti denotano un’apprezzabile sottigliezza: quando Batman, nelle sue vesti di Bruce Wayne, è da solo con Catwoman (in borghese) e ne subisce il fascino, Robin, chiaramente geloso, spegne il visore sul quale Batman gli aveva chiesto di controllare, per sicurezza, quanto accadeva: in questo modo Bruce viene rapito e sono comicamente evidenziate le implicazioni da sempre suggerite dagli esegeti più puntuti e maliziosi della serie. I colori sono vivaci e brillanti, perfetti per il tono del film e caratteristici dell’epoca cui appartiene. Per l’inventiva, la sfrenata libertà, la vivacità e la brillantezza, resta probabilmente uno dei migliori film di Batman, in contrasto con la cupezza grottesca di diversi di quelli che seguiranno. Certo, bisogna essere nello spirito adatto per apprezzarne l’atteggiamento camp e disinibito, ma se si entra nella lunghezza d’onda giusta il film mantiene con continuità la sua gradevolezza. Leslie Martinson (autore anche di un bizzarro e scanzonato veicolo per Raquel Welch, Fathom – Bella e intrepida spia del 1967) vanta una carriera sterminata prevalentemente televisiva, ma si mostra qui perfettamente in grado di guidare una macchina sconclusionata e delirante che prende di petto le assurdità intrinseche del genere supereroistico fumettistico e le enfatizza con stile per trarne motivo di spensierato intrattenimento. La lunghezza e l’eccessiva esilità della trama – non dissimile da quella di un’avventura a fumetti di una ventina di pagine – compromettono solo in parte il divertimento.
Per inciso, vale la pena di ricordare che la serie televisiva, in piccolo, ha le medesime caratteristiche ed è ricca di un’ironia venata di simpatica demenzialità: per fare solo un esempio, nell’episodio The Cat and the Fiddle (1966) diretto da Don Weis, Batman e Robin arrivano a spron battuto con la batmobile e parcheggiano davanti a una banca all’interno della quale devono sventare il complotto di Catwoman. Robin fa per precipitarsi dentro, ma Batman lo ferma: c’è da mettere la moneta nel parchimetro. Robin obietta che nessuno metterebbe la multa alla batmobile, ma il probo Batman ricorda che loro devono comportarsi sempre da bravi cittadini.

Dopo il grande buio, il grande ritorno: l’epopea burtoniana

Per lunghi anni Batman resta lontano dal grande e dal piccolo schermo, a parte i cartoni animati (che restano fuori da questa indagine). I super eroi della Marvel hanno preso piede in campo fumettistico relegando i più classici personaggi della DC in un angolo dell’immaginario collettivo. Inoltre, quando si tratta di tentare la trasposizione in grande stile sugli schermi cinematografici a essere scelto è Superman, il super eroe per antonomasia9. Ma nel corso degli anni i fumetti di Batman vivono periodi di grande trasformazione. In particolare, significativo per il mood e il look del personaggio è l’intervento di Frank Miller che, anche cronologicamente, può essere visto come presupposto per il grande ritorno al cinema di Batman, che avviene nel 1989 con un kolossal affidato alle mani per nulla avvezze alla “normalità” di Tim Burton.
Batman (1989) mantiene i toni dark del fumetto milleriano, ma com’è ovvio che sia risente ancor più di quella particolare atmosfera comico-grottesca-orrorifica che è la cifra stilistica di Burton. In questo primo film, il regista, forse intimidito dal consistente budget messogli a disposizione e consapevole della necessità di garantire il ritorno economico auspicato, evita di esagerare e mantiene salda la rotta narrativa, pur disseminandola di elementi bizzarri e privilegiando un’ambientazione che è tutto fuorché realistica. Pur mantenendosi insolitamente sobrio, infatti, Burton riempie l’immagine della sua tipica estetica. Lontana è la spensierata vivacità dei serial e lontanissimo lo spirito divertito e ironico del film del 1966. Per la prima volta la cupezza che fu delle prime storie del Batman fumettistico e soprattutto del restyling milleriano viene catturata sullo schermo. Gotham City sembra un irreale girone dell’inferno, dove il malaffare domina: architettonicamente, è uno strano miscuglio di vecchio e nuovo, di gotico e moderno.
La storia mette Batman di fronte a quello che forse rimane il “cattivo” più famoso della serie, il Jolly, qui rimasto nella denominazione originale di Joker. Le origini di Batman sono salutarmente e convenientemente ridotte all’osso, dando loro l’evidenza di mero pretesto all’esistenza del super eroe. Niente a che vedere con la magniloquente enfasi che appesantirà il reboot Batman Begins qualche anno più tardi. Qui ci si sofferma brevemente sul dramma vissuto dal Bruce bambino e ci si limita a ritornarvi verso la fine per inserirvi un twist che coinvolge un giovane Joker (Hugo Blick – poi produttore, regista e sceneggiatore televisivo – che non assomiglia troppo a Jack Nicholson, ma ha comunque un viso inquietante, alla Richard Widmark).
Grissom (Jack Palance) è il boss della mala di Gotham City che il Sindaco e il procuratore distrettuale Harvey Dent (Billy Dee Williams)10 vogliono incastrare. Jack, il futuro Joker (Jack Nicholson), è il malevolo e ambizioso socio di Grissom. Quando il vecchio gangster, geloso delle attenzioni di Jack nei confronti della sua amante e preoccupato di mantenere il proprio potere, fa finire in trappola il socio, questi resta sfigurato da composti chimici e si trasforma nel Joker, capace in breve di eliminare Grissom, diventare il boss di tutta la mala cittadina e costituire un avversario che solo Batman può affrontare.
Il contesto riporta al Batman più classico, con una batmobile all’altezza, bondiana al punto giusto, e la presenza di Alfred, il sempiterno e deferente maggiordomo interpretato con gusto da Michael Gough, attore di lungo corso che gli appassionati dell’horror ricorderanno per le sue molte caratterizzazioni flamboyant nel genere (da Konga a Diario proibito di un collegio femminile). Alcune gag (non troppe, per la verità) sono irresistibili, come il look dimesso e trascurato dei giornalisti televisivi che non osano usare cosmetici e conseguentemente perdono ogni glamour.
La dimostrazione che i soldi sono tutto in una società senza valori è data graficamente nel corso della distribuzione pubblica di denaro con cui il Joker vuole sostituirsi alle autorità per dare al pubblico – malato e avido – la festa che richiede. I pupazzi gonfiabili di questa festa finale sono molto godibili e anch’essi tipicamente burtoniani. Le autorità sono del tutto imbelli, sempre trincerate dietro insulsi e codardi no comment a dimostrare la necessità di Batman. Il quadro che emerge è quindi quello di un conglomerato sociale decadente e privo di qualità, nel quale si trova ad agire un personaggio cui tutti affidano volentieri il compito del mantenimento di uno status quo che fa soprattutto comodo a chi detiene il potere.
Michael Keaton è un Bruce Wayne adeguato, anche se sotto tono, e un Batman un po’ blando soprattutto se messo a confronto con un Joker reso in modo irresistibile da un Jack Nicholson in stato di grazia che non si preoccupa per niente di esagerare. Il confronto è diseguale e il film è in sostanza sulle spalle di Nicholson, delle scenografie e degli effetti speciali, con un risultato complessivo soddisfacente, ma non eccezionale.
è questo in pratica il primo film di un nuovo corso del genere supereroistico che troverà sviluppo completo solo qualche anno dopo con il primo episodio della saga degli X-Men, che lancerà definitivamente gli eroi in calzamaglia nell’empireo cinematografico rifacendosi in gran parte al pantheon della Marvel.

Il successo è notevole: circa 411 milioni di dollari di incasso lordo mondiale, partendo da un budget di 35 milioni di dollari. La conseguenza è il seguito Batman – Il ritorno (1992), che vede di nuovo Tim Burton al timone di comando. Stavolta il regista, forte del successo del film precedente, non ha remore. L’inizio ha la cattiveria e la stranezza visuale tipiche del più puro Burton, con l’abbandono del piccolo “pinguino” – un neonato presumibilmente deforme – da parte degli inorriditi genitori nelle fogne con una modalità (un cestino galleggiante in un corso d’acqua) che richiama sia Mosè sia il Fantasma dell’Opera. Dopo l’autocontrollo del primo film, in questo secondo Burton va quindi a briglie sciolte.
Il facoltoso imprenditore Max Schreck11 (Christopher Walken) vuole costruire una nuova centrale elettrica. Per facilitarne la realizzazione cerca di utilizzare i suoi stretti contatti con il Sindaco di Gotham. Il Pinguino (Danny De Vito) è un essere deforme e malevolo che vive nelle fogne della città dove è giunto in seguito all’abbandono da parte dei genitori. Ora intende riemergere alla luce del giorno e, nel contempo, vendicarsi un po’ di tutti. A questo scopo intende unirsi a Schreck che coglie subito la convenienza di una tale opportunità. Selina Kyle (Michelle Pfeiffer), la sciatta segretaria di Schreck, scopre che la centrale elettrica del suo capo è in realtà una truffa: una finta centrale che in realtà ruberebbe l’energia cittadina. Quando Schreck se ne rende conto, cerca di eliminarla. Selina però misteriosamente sopravvive e ancor più misteriosamente si trasforma in Catwoman, una sorta di fascinoso emblema sadomaso in tuta di pelle nera attillata.
Anche in questo caso, come già nel precedente film, gli intrecci tra criminalità e politica sono in primo piano, fondati sulla credulità degli elettori che si bevono tutte le panzane che vengono loro propinate. Di questo connubio politico-criminale, Schreck è l’emblema tipico, interpretato con adeguata esagerazione da Christopher Walken. Il Pinguino, invece, è un personaggio sin troppo sgradevole, alieno e inquietante: non riesce mai a essere realmente comprensibile nei motivi e, anche per questo, mette soprattutto a disagio. In questo senso l’interpretazione di Danny De Vito è insieme funzionale e disfunzionale.


In mezzo a tanto esasperato grottesco il personaggio di Batman rischia di scomparire, di passare per incolore, come un osservatore cui sia richiesto di tanto in tanto di fungere da deus ex machina per interrompere i piani criminosi altrui. Bruce Wayne si conferma personaggio relativamente interessante nell’interpretazione sobria di un Michael Keaton più padrone del personaggio, ma Batman resta monocorde e vuoto.
Anche la storia non brilla di logica e il rapporto tra Schreck e il Pinguino è costruito e risolto in modo troppo sbrigativo. Lo stesso può dirsi, a livello di sbrigatività, per il ritratto psicologico di Catwoman/Selina, che, affidata a un’attrice sin troppo affascinante come Michelle Pfeiffer, non risulta troppo credibile nella sua parte di grigia impiegata e non si capisce bene come acquisisca lo scatto per diventare una super eroina sadomaso né che cosa in realtà intenda fare12.
Colori, scenografie e messa in scena sono squisitamente burtoniani e contribuiscono a creare un’estetica dark molto affascinante e ricca visivamente. I risultati commerciali non premiano la svolta burtoniana: il budget cresce esponenzialmente giungendo a 80 milioni di dollari, mentre gli incassi lordi mondiali scendono a circa 266 milioni. La franchise resta profittevole, ma il margine si riduce.

Fine prima parte


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :