Ne l’Albatro, al pari di Corrispondenze manifesto programmatico del simbolismo, questa lacerazione tra l’inferno del reale e il paradiso dell’ideale è sintetizzata dalla figura del grande uccello marino, tanto maestoso ed elegante quando vola, quanto impacciato e sproporzionato quando cammina sulla terra. Gli stessi marinai che ne osservavano ammirati il volo, ora lo deridono e lo sottopongono ad ogni sorta di vessazioni. La lacerazione genera nel poeta una sensibilità straordinaria, ma quest’ipersensibilità non gli consente di vivere una vita sociale equilibrata. Baudelaire avverte come irrimediabilmente compromesso il legame del poeta col popolo: non rivendica nessuna vocazione messianica per la sua arte, ma semplicemente la capacità di dare piacere e di mostrare la realtà senza mistificazioni moralistiche.
Il rapporto del poeta con la folla è sviluppato ne Lo spleen di Parigi, raccolta di poemi in prosa che, nei programmi del poeta, avrebbe dovuto superare I fiori del male attraverso quella sperimentazione formale che era mancata nel suo capolavoro. L’abbandono delle forme metriche tradizionali, per quanto già destabilizzate dal tono colloquiale e dalla musicalità della lingua, avrebbe dovuto consentire a Baudelaire, segnato dalle vicissitudini giudiziarie de I fiori del male, una maggiore libertà espressiva. Nel XII di questi poemi, intitolato Le folle, il poeta deve saper popolare la solitudine, per poter essere solo nella folla; deve affrontare la moltitudine come una prostituta sacra dell’anima; la sua sensibilità gli permette un immediato contatto intimo con le persone che incontra; il suo girovagare tra la folla diviene un’orgiastica osmosi spirituale.
In un altro poema, Perdita d’aurora, Baudelaire è definitivo. Si tratta di un dialoghetto tra un poeta e un suo amico che si incontrano in un postribolo. Alla sorpresa dell’amico nel vedere un tale illustre letterato in un simile luogo malfamato, il poeta risponde di aver perduto la sua aureola nel traffico infernale delle carrozze e d’aver deciso di non raccoglierla, avendo provato un certo sollievo nell’essersene liberato. Ai consigli dell’amico di denunciarne la perdita alle autorità competenti, il poeta dice di non pensarci neppure, di essere felice di aver riconquistato l’anonimato e, anzi, se qualche poetastro l’avesse raccolta per cingersene il capo, lui sarebbe stato doppiamente soddisfatto: per aver dato felicità a qualcuno e per sapere di avere uno in più di cui poter ridere, se mai l’avesse incontrato. Il poeta non ha più nessuna intenzione di lottare per guadagnarsi il riconoscimento ufficiale, ma si accontenta di una sua particolare interpretazione della quotidianità, fatta di solitudini popolate e di solitari affollamenti, nella culla consolante dell’ironia. L’ufficialità, nella società borghese, è cosa da poetastri che asserviscono la loro abilità letteraria al potere.
Ad ogni buon conto, la biografia di Baudelaire ci mostra un poeta emarginato per non aver assecondato l’epica mistificata della società borghese, ma alla costante ricerca di una via per ritagliarsi uno spazio sociale. La sua infaticabile attività di critico va letta sotto questa luce. Il poeta, spodestato dal suo trono dall’avvento della tecnocrazia, non si rinchiude nella torre d’avorio, ma cerca di mettere a frutto la sua capacità analitica per essere partecipe del dibattito culturale. La sua personalissima prospettiva non gli ha consentito di raggiungere la popolarità tra i contemporanei, ma l’ha reso un punto di riferimento imprescindibile per gli sviluppi successivi della critica artistica e culturale, financo per l’analisi sociologica. Se l’artista, con la sua estetica rovesciata dell’orrido e del crudele, si è posto come spartiacque tra la modernità e la contemporaneità, il critico, con le sue analisi artistiche e sociologiche, ha rappresentato una delle prime e più compiute manifestazioni di intellettuale organico alla crisi del contemporaneo.
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