Bava e affinità elettive

Creato il 21 agosto 2010 da Olineg

Mario Bava è l’impersonificazione cinematografica dell’antico adagio nemo propheta in patria; quando Tim Burton, in un’intervista italiana, confessò l’influenza esercitata su di lui dal regista sanremese, rimase di stucco davanti allo sguardo interrogativo dei giornalisti nostrani che non avevano la minima idea di chi fosse Mario Bava. Ma lo sapeva Scorsese, che lo adorava, e lo sapeva Ridley Scott, che da “Terrore nello spazio” trasse ispirazione per “Alien”, lo sapeva David Lynch, che omaggiò l’opera di Bava con delle citazioni in “I segreti di Twin Peaks”. E lo sa Quentin Tarantino, che da Bava (e da Fulci) prende i canoni per la composizione dell’inquadratura e il gusto per la fotografia. Il capolavoro di Bava è unanimamente considerato “Cani arrabbiati”, film del 74 che non uscì nelle sale per il fallimento della casa di produzione (destino comune a molti film, ad esempio ci è andato vicino anche il “My name is Tanino” di Paolo Virzì, dopo i guai giudiziari della Cecchi Gori), uscì per la prima volta in homevideo più di ventanni dopo in Germania, su impegno di Lea Lander che nel film interpretava una parte, poi si diffuse in tutto il mondo, spesso in varie versioni e altri titoli (ben sei diverse edizioni secondo wikipedia), come “Semaforo rosso”, e “Kidnapped” (rapito) in una versione statunitense, rimontata e con scene inedite girate dal figlio di Mario, Lamberto Bava. Ma quando l’opera maledetta di Bava toccò il suolo stelle e strisce, un ragazzo dal cognome italiano e che di quel regista aveva il culto, aveva già girato la sua opera prima con un titolo molto simile, parlo di Quentin Tarantino e de “Le iene”, il cui titolo originale è “Reservoir dogs” (“Cani da rapina” in una riedizione italiana), mentre il titolo inglese della versione da sala del capolavoro di Bava fu “Rabid dogs” (uscito nel 1998, sei anni dopo il film di Tarantino). Ma le affinità non si esauriscono al titolo, infatti entrambe le storie partono dalle conseguenze di una rapina finita male, con tanto di ostaggio, che nel film di Tarantino viene tagliuzzato da un tipo (Mr Blonde) che avrebbe potuto indossare il soprannome destinato a uno dei tre rapinatori di Bava, ovvero “Bisturi”. Ma l’elemento comune più interessante è forse la trovata narrativa del braccaggio, che pur non palesandosi mai fa impazzire i protagonisti fino a metterli gli uni contro gli altri. Background lo chiamano, anche se personalmente preferisco l’immagine di una frequenza radio, e quando uno vi si sintonizza, con una vecchia radiolina a pile o con un potente impianto hi-fi, in mezzo a una campagna desolata o in cima ad un attico metropolitano, accede alle stesse melodie, alle stesse atmosfere, agli stessi mondi. ——————————- Nota personale: suggestionato dalla somiglianza dei film di Tarantino e Bava, cerco su Wiki il titolo del racconto tripartito da me pubblicato su questo blog la settimana scorsa, ovvero “Il mantenuto”. Ne viene fuori l’opera prima come regista di Ugo Tognazzi, film praticamente sconosciuto. Ma il nome di Tognazzi mi porta alla mente un film da lui interpretato diretto da Lattuada, “Venga a prendere il caffè da noi”, tratto dal romanzo di Piero Chiara “La spartizione”. In questo film Tognazzi interpreta un reduce della seconda guerra mondiale che, arrivato a una certa età, decide di accasarsi, la sorte lo porta nelle braccia di tre sorelle, tre donne non più giovanissime barricate nel loro bigottismo di paese. E col mio raccontuccio ci sono almeno due elementi in comune. Approfitto per invitare alla riscoperta di un autore che non può, e non deve, essere dimenticato: Alberto Lattuada.


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