Poi c'è LA SCENA. Di Caprio e il grizzly che lottano ferocemente sul letto del bosco, insanguinandolo. Ma la lotta non si risolve in un unico attacco. No. L'orso lo aggredisce ferocemente, poi va via. Paura, presentimento della fine. Poi l'orso ritorna, lo aggredisce ancora. Poi va di nuovo via. Dolori lancinanti, squarci voraginosi. Certezza della morte. Infine ritorna, più feroce che mai, lasciando Hugh Glass lacero, semi-sgozzato, frantumato. Ma vivo. Mentre l'orso, alla fine, è morto.
Il momento più bello del film, però, è un altro. Un momento che in verità si ripete almeno in due, tre scene: quando Glass, agonizzante, infreddolito, prossimo alla morte, striscia nel sottobosco con il volto appiccicato alla telecamera. Tutta la poesia e la grandezza e la verità del film sta in questo: nel suo alito che gela lo specchio della telecamera, appannandolo e, nello stesso tempo, rivelando allo spettatore che lui, Di Caprio, stava morendo di freddo. Agonizzante, infreddolito, ma redivivo.