The Life and Death of Peter Sellers sembra l'ultima occasione di un infelice per rimettere a posto certe cose, come di voler riequilibrare il male che l'uomo ha fatto con una creatività scatenata, incapace di arrestarsi di fronte a niente. Rush, nei panni di Sellers, prende il posto della moglie, del padre, della madre e di tutti coloro che ha ferito e colpito con le sue intemperanze, giustificandole benevolmente in parole mai pronunciate, con alibi di ragioni di cui l'attore non può non servirsi per continuare a vivere.
Tu chiamami Peter è cinematografico ben oltre la carrellata di titoli e di celebrità che hanno avvicinato Peter Sellers e l'hanno voluto con sé nella magia del cinema. Le scene in cui lo svolgimento della vicenda si sdoppia nelle alternative e l'attore colma il vuoto lasciato dalla sua tempesta eccentrica mostrano il set per quello che è: lo sfondo predisposto ad arte per la finzione.
Ciò che per Brecht rappresentava il colmo della verità - l'avvertimento agli spettatori e la loro consapevolezza adulta e responsabile di partecipare a un momento di finzione - diventa in The Life and Death of Peter Sellers il più radicale atto di finzione: l'uomo invalida il personaggio in nome di ragioni personali, nel tentativo di giustificarsi col proprio genio.
A esser sincero, non conosco la biografia di Peter Sellers al punto da addentrarmi nel trattamento che la sceneggiatura ha riservato all'attore. Non so se belle case, belle donne, un egoismo a prova di bomba e tanti capricci siano lo specifico di questa persona. Da spettatore, però, noto che in Tu chiamami Peter abbiamo senz'altro un interscambio brusco e difficile - quasi sempre a senso unico - tra vita e arte.
Geoffrey Rush si racconta come Peter Sellers e si dice insoddisfatto della propria vita artistica, incapace di accontentarsi, educato a essere insaziabile, a mordere la mano che gli dà da mangiare, a divorare la sua stessa vita e a rovistarsi dentro per cercarla e sputarla fuori con una forza sismica verso ogni affetto e forma di stabilità.