Bela Tarr e Il cavallo di Torino

Creato il 26 gennaio 2012 da Soloparolesparse

Il cavallo di Torino, che abbiamo potuto vedere in anteprima italiana grazie ad una serata evento nella minirassegna del Museo Nazionale del Cinema, è un film di una ricercatezza estrema, di una classe e di uno stile importante, in cui la firma di Bela Tarr è potente ed evidente.
Certo, sappiatelo, non è un film per tutti.

Due ore e mezza in un bianco e nero opaco, cupo, raccontate con due soli personaggi ed una serie di lunghissimi pianisequenza estremamente lenti e pacati, capaci di esprimere tutto quello che Tarr vuole dire con una forza senza pari.

Si comincia con una voce narrante su schermo nero che racconta l’episodio della follia di Nietszche, quando a Torino abbracciò un cavallo malmenato dal suo padrone e da quel momento mai più si riprese.
Ma, si chiede la voce, che fine ha fatto quel cavallo?

E lo ritroviamo (quel cavallo o forse un altro) che torna verso casa portando un carro ed il suo padrone.
Ed arrivati alla stamberga in mezzo al nulla dove abitano vengono aiutati dalla figlia del padrone a smontare e a rientrare ognuno al suo giaciglio.
Da quel momento in poi seguiamo la monotona vita dell’uomo e della ragazza che si snoda ogni giorno tra una patata bollita per cena, l’acqua da prendere al pozzo e la stufa da caricare.
Il cavallo però ha qualcosa che non va, si rifiuta di mangiare e tantopiù di viaggiare.
La vita così diventa ancora più uguale a se stessa, interrotta solo per pochi istanti da visite inaspettate e accolte malamente.

Alla malattia del cavallo si somma l’esaurimento del pozzo e risulta evidente che la vita dei due è in grave pericolo, così l’uomo decide di partire, ma il tentativo fallirà dopo pochi metri.
Il ritorno nella casetta ed il buio soprannaturale che invade le loro vite non solo simbolicamente segnano il finale.
Su tutto si impone, per sei giorni una inesauribile tempesta di vento.

Movimenti lenti, sempre uguali, inquadrature lunghissime, quasi dei quadri in impercettibile sfarfallio.
L’insieme del film di Tarr è una tela ad olio, spessa, piena di simboli e di significati da scovare, o magari da lasciare sullo sfondo.
Apprezzabile la pazienza dell’autore nel ripetere infinite volte le stesse scene, la vestizione dei protagonisti, il riunirsi intorno al tavolo.
E quelle patate che quasi mai vengono mangiate nella loro interezza.

Ripeto che si tratta di un film per un pubblico attento, pronto a cercare nei meandri di una pellicola immagini e significati… e come sempre la sala a Torino era piena (lo dico sempre, sono orgoglioso di vivere in questa città!)


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