Un giovane attivista/filmmaker di sinistra decide diascoltare, pur non condividendole, le idee e le opinioni del leader dellaIssuikai, la nuova destra giapponese extraparlamentare. Lo stesso regista,spingendosi ancor più in là, decide poi di seguirlo con una videocamera neisuoi spostamenti fino nella Belgrado di fine millennio dove incontra militari,generali e politici delle destre dei Balcani impegnati a riciclarsi nel nuovoordine. Il tutto con in sottofondo, tema appena toccato ma ricco di suggestionicreative, il suicidio, avenuto nel 2006 della fidanzata del regista, attivista eimportante membro della Issuikai. Sembra la trama di una improbabile fiction ma è in realtà la struttura portante di un documentario"personale" e opera d'esordio di Kaneko Yū (anche critico/scrittorecinematografico). Un documentario che miscela aspetti personali con elementi sociali e politici e che si colloca in quel filone giapponese del self-documentary che ha in alcune opere di Kawase Naomi, HaraKazuo e Matsue Tetsuaki (autore di un libro dal titolo proprio "Serufudokyumentarii") i lavori più conosciuti, ma il cui inizio potremmo indicare (ogni inizio è una finzione) nel 1975 con Nichibotsu no insho (Impressions of a Sunset) di Suzuki Shiroyasu. Per chi desiderasse approfondire il "genere", l'analisi di Hisashi Nada ci sembra fondamentale. Ritornando a Belgrade 1999, èstato assemblato e completato nel 2009 quando Kaneko decide forse, è questa unanostra supposizione, di affidarsi al potere soteriologico dell'operacinematografica per completare quella rielaborazione del lutto cosìnecessaria affinchè il tempo possa tornare a scorrerecome vita. Il regista infatti riprende vecchie cassette che aveva registratodal 1999 al 2001 quando comincia ad interessarsi allaIssuikai e specialmente al suo leader, Kimura Mitsuhiro. Mettendole insieme eaggiungendo nelle parti più importanti un commento fuori campo crea undocumento/narrazione sul pensiero e la sete di affermazione della nuova destra.A scanso di equivoci e benche' l'approccio del regista, anche se molto critico,sia spesso troppo dolce verso la Issuikai, va detto che l'immagine del gruppoche ne viene fuori è assai deprimente. Su tutto, il numero dei membri, 3000 intutto il Giappone, e dei partecipanti alle varie manifestazioni. In una scenadi protesta che vediamo nel film, colpisce non tanto la stantia retorica dellevuote parole ( "patria", "nazione") ma appunto l'esiguonumero dei partecipantiche dire unaventina sarebbe già esagerato. Dalle manifestazioni anti-americane si proseguepoi verso Belgrado, dove Kimura incontra i "capi" o le persone checontano nelle destre nazionaliste del posto, politici e generali che all'epocadei filmati (1999) dichiaravano ancora che i massacri e lo strerminio etnicoerano solo frutto di propaganda e mirata disinformazione. E' questa la partepoliticamente più intrigante dove la videocamera segue da vicino le mosse e idesideri di grandezza di Kimura, un occhio privilegiato anche per vedere comenascono e di che si nutrono certe alleanze destrorse nel mondo.Non si deve pensare però ad un documentarioprettamente politico, distaccato ma è più come un occhio lasciato galleggiarenelle acque del nuovo/vecchio nazionalismo sia giapponese che ex-yugoslavo delperiodo. Anche se molti commenti fuori campo del regista sono assai critici, tantoche alla fine definiràparole econcetti quali "patria e nazione" delle finzioni, la videocamera ècome fosse parte interna dei processi che ci mostra.Qui sta il senso di disagio che si prova a vedere leimmagini, non si percepisce cioè una netta presa di distanza ( delle immagini)dal soggetto che presenta ed è forse per questa ragione che il documentario èstato proiettato sì in teatri indipendenti a Tokyo e Osaka, ma è anche vero che non ha trovato altri sbocchi nel girodegli art-theater nipponici.Paradossalmente in questo suo sporcarsi le mani più delnecessario, ancora oggi le (poche) proiezioni sono seguite da un battle talkfra esponenti della Issuikai ed intellettuali dell'area di sinistra, in questosuo essere disturbante soprattutto a sinistra quindi, risiede uno dei puntipiù interessanti del film. Altro pregio dell'opera è poi la già citata struttura stessa del film, il suoessere self-documentary che prova come un intimo diario, se non a spiegare,almeno a presentare l'abisso e le ragioni del suicidio dell'amata. La suapresenza/assenza lieve, quasidiafananel film, è' il gorgo da cui "Belgrade 1999" scaturisce.Significative a questo proposito sono le pochissime scene in cui compare,sempre bellissima e tirata e quasi assorta in un'altra dimensione.Difficile dare un voto ed esprimere giudizi che non sianofluttuanti ad un lavoro del genere: un diario allo stesso tempo reale e mentaledove, come nei migliori casi di self-documentary, a essere messo in discussioneè prima di tutto il cinema stesso e la posizione dell'opera cinematograficanella contemporaneiità, con l'eccedenza di significati e di possibilità che il"semplice" atto di filmare porta con sé. [Matteo Boscarol]
Un giovane attivista/filmmaker di sinistra decide diascoltare, pur non condividendole, le idee e le opinioni del leader dellaIssuikai, la nuova destra giapponese extraparlamentare. Lo stesso regista,spingendosi ancor più in là, decide poi di seguirlo con una videocamera neisuoi spostamenti fino nella Belgrado di fine millennio dove incontra militari,generali e politici delle destre dei Balcani impegnati a riciclarsi nel nuovoordine. Il tutto con in sottofondo, tema appena toccato ma ricco di suggestionicreative, il suicidio, avenuto nel 2006 della fidanzata del regista, attivista eimportante membro della Issuikai. Sembra la trama di una improbabile fiction ma è in realtà la struttura portante di un documentario"personale" e opera d'esordio di Kaneko Yū (anche critico/scrittorecinematografico). Un documentario che miscela aspetti personali con elementi sociali e politici e che si colloca in quel filone giapponese del self-documentary che ha in alcune opere di Kawase Naomi, HaraKazuo e Matsue Tetsuaki (autore di un libro dal titolo proprio "Serufudokyumentarii") i lavori più conosciuti, ma il cui inizio potremmo indicare (ogni inizio è una finzione) nel 1975 con Nichibotsu no insho (Impressions of a Sunset) di Suzuki Shiroyasu. Per chi desiderasse approfondire il "genere", l'analisi di Hisashi Nada ci sembra fondamentale. Ritornando a Belgrade 1999, èstato assemblato e completato nel 2009 quando Kaneko decide forse, è questa unanostra supposizione, di affidarsi al potere soteriologico dell'operacinematografica per completare quella rielaborazione del lutto cosìnecessaria affinchè il tempo possa tornare a scorrerecome vita. Il regista infatti riprende vecchie cassette che aveva registratodal 1999 al 2001 quando comincia ad interessarsi allaIssuikai e specialmente al suo leader, Kimura Mitsuhiro. Mettendole insieme eaggiungendo nelle parti più importanti un commento fuori campo crea undocumento/narrazione sul pensiero e la sete di affermazione della nuova destra.A scanso di equivoci e benche' l'approccio del regista, anche se molto critico,sia spesso troppo dolce verso la Issuikai, va detto che l'immagine del gruppoche ne viene fuori è assai deprimente. Su tutto, il numero dei membri, 3000 intutto il Giappone, e dei partecipanti alle varie manifestazioni. In una scenadi protesta che vediamo nel film, colpisce non tanto la stantia retorica dellevuote parole ( "patria", "nazione") ma appunto l'esiguonumero dei partecipantiche dire unaventina sarebbe già esagerato. Dalle manifestazioni anti-americane si proseguepoi verso Belgrado, dove Kimura incontra i "capi" o le persone checontano nelle destre nazionaliste del posto, politici e generali che all'epocadei filmati (1999) dichiaravano ancora che i massacri e lo strerminio etnicoerano solo frutto di propaganda e mirata disinformazione. E' questa la partepoliticamente più intrigante dove la videocamera segue da vicino le mosse e idesideri di grandezza di Kimura, un occhio privilegiato anche per vedere comenascono e di che si nutrono certe alleanze destrorse nel mondo.Non si deve pensare però ad un documentarioprettamente politico, distaccato ma è più come un occhio lasciato galleggiarenelle acque del nuovo/vecchio nazionalismo sia giapponese che ex-yugoslavo delperiodo. Anche se molti commenti fuori campo del regista sono assai critici, tantoche alla fine definiràparole econcetti quali "patria e nazione" delle finzioni, la videocamera ècome fosse parte interna dei processi che ci mostra.Qui sta il senso di disagio che si prova a vedere leimmagini, non si percepisce cioè una netta presa di distanza ( delle immagini)dal soggetto che presenta ed è forse per questa ragione che il documentario èstato proiettato sì in teatri indipendenti a Tokyo e Osaka, ma è anche vero che non ha trovato altri sbocchi nel girodegli art-theater nipponici.Paradossalmente in questo suo sporcarsi le mani più delnecessario, ancora oggi le (poche) proiezioni sono seguite da un battle talkfra esponenti della Issuikai ed intellettuali dell'area di sinistra, in questosuo essere disturbante soprattutto a sinistra quindi, risiede uno dei puntipiù interessanti del film. Altro pregio dell'opera è poi la già citata struttura stessa del film, il suoessere self-documentary che prova come un intimo diario, se non a spiegare,almeno a presentare l'abisso e le ragioni del suicidio dell'amata. La suapresenza/assenza lieve, quasidiafananel film, è' il gorgo da cui "Belgrade 1999" scaturisce.Significative a questo proposito sono le pochissime scene in cui compare,sempre bellissima e tirata e quasi assorta in un'altra dimensione.Difficile dare un voto ed esprimere giudizi che non sianofluttuanti ad un lavoro del genere: un diario allo stesso tempo reale e mentaledove, come nei migliori casi di self-documentary, a essere messo in discussioneè prima di tutto il cinema stesso e la posizione dell'opera cinematograficanella contemporaneiità, con l'eccedenza di significati e di possibilità che il"semplice" atto di filmare porta con sé. [Matteo Boscarol]
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