Il XX secolo ha conosciuto due guerre mondiali. E’ stato perciò il secolo della guerra totale. Ma anche il secolo dei cani soldato.
Centinaia di migliaia di cani furono impiegati al fronte e, nel luglio 1943, quattro di essi furono abbandonati su quell’isola.
Un’isola che ormai non aveva più un nome. L’esercito giapponese si era ritirato, portando via con sé la bandiera del Sol Levante. Da quel momento preciso quella non era più l’isola di Narukami. Tuttavia gli americani credevano che i giapponesi fossero ancora presenti, e finché non avessero fatto nulla per recuperarla, essa sarebbe rimasta un territorio indebitamente occupato dalle forze nipponiche. In altri termini, quella non era nemmeno più l’isola di Kiska.
Era solo un’isola senza nome, una terra di nessuno per quattro cani dimenticati.
Un’isola grande all’incirca come la metà dei ventitré distretti urbani di Tokyo. Una distesa di tundra nel bel mezzo di un oceano perennemente avvolto nella nebbia. Un’isola bianca, bianchissima. La neve estiva abbarbicata sulla cima dei rilievi, un’acqua gelida e cristallina a sgorgare nelle valli, un tappeto d’erba a ricoprire la terra, eternamente umida e fresca di bruma.
Gli umani sono andati via, pensarono i quattro cani. Non c’è più nessuno. Avevano compreso che i giapponesi si erano ritirati, che loro erano stati abbandonati. Su questo non avevano dubbi, Kita, Seiyu, Katsu ed Explosion.
E la fine, pensarono.
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Furukawa Hideo, Belka, traduzione dal giapponese di Gianluca Coci, Sellerio, 2013.