Da una distanza di sicurezza è facile scordare il fatto che in questi slum, nei bassifondi governati dalla corruzione dove persone sfinite si contendono il poco che c'è in uno spazio risicato, è dolorosamente difficile essere buoni. La cosa che sorprende veramente è che alcuni siano buoni, e che molti altri cerchino di esserlo; tutti quegli individui invisibili che ogni giorno si ritrovano ad affrontare dilemmi non dissimili da quello che Abdul dovette affrontare, con una lastra di pietra in mano, quel pomeriggio di luglio quando la sua vita andò in pezzi. Se la casa è storta e cadente, e il terreno su cui è costruita è irregolare, com'è possibile fare una cosa dritta?Termina così Belle per sempre, con questa considerazione dell'autrice Katherine Boo, vincitrice del premio Pulitzer nel 2000. Prima ci sono oltre trecento pagine in cui lei ci porta a vivere nello slum di Annawadi, sorto intorno all'aeroporto di Mumbai, una delle città più popolose del mondo. È lei stessa che ha vissuto lì per anni, dal 2007 al 2011, per vedere con i suoi occhi, e testimoniare, che cosa significa essere poveri in un Paese in via di sviluppo come l'India. Katherine Boo voleva vedere l'evolversi degli eventi nel corso del tempo, voleva vedere chi ce l'avrebbe fatta a diventare un po' meno povero degli altri, voleva soprattutto raccontarlo. L'ha fatto in questo libro, dove narra le storie vere di persone reali, con i loro nomi reali. A scrivere è una giornalista che non romanza sopra i fatti, che usa uno stile asciutto e diretto, che non ha intenzione di commuovere con false storie di speranza, con intrecci di vite romanzati. Lei racconta quello che vede e quello che sa. Nient'altro. Ne esce l'affresco forte di una povertà disarmante, figlia di un mondo globalizzato, di tanta corruzione e menefreghismo. Ne esce una sorta di romanzo corale, che romanzo non è però, dove si mischiano le vite di una decina di persone che vivono tra quelle baracche, tutti poveri, ma in maniera diversa.
C'è Abdul, primo figlio di Zerhunisa, gran lavoratore, timido, silenzioso. Non ha cultura, non ha sogni, nemmeno la benché minima speranza di progredire. A lui basterebbe che il futuro fosse come il passato. D'altra parte lui è già un gradino più in alto rispetto agli altri. Lui ha smesso di raccogliere immondizia, adesso la seleziona e questo lo fa guadagnare di più.
A raccogliere la preziosa immondizia lasciata dai ricchi occidentali sono centinaia di bambini, che si intrufolano nei posti più impensati per trovare un pezzo di alluminio, l'argento dei poveri, per poi rivenderlo.
C'è Manju che sarà la prima ragazza di Annawadi a laurearsi.
C'è Asha, sua madre, che vuole diventare qualcuno di importante e che, per questo, usa tutti i mezzi che possiede: si lascia corrompere e lascia il suo corpo a chiunque lo voglia.
C'è Meena, la migliore amica di Manju, con cui intesse lunghe chiacchierate notturne e segrete. Sa che presto dovrà sposarsi con un uomo di un villaggio vicino, ma lei non è attratta dall'idea di un matrimonio così, perciò si toglie la vita con il veleno per i topi. Il suicidio è molto diffuso ad Annawadi.
C'è anche la Storpia, vicina di casa di Abdul, che ci mette un attimo a darsi fuoco per rovinare per sempre la vita della famiglia di Abdul, leggermente più ricca della sua.
C'è la politica che promette e non mantiene, c'è una polizia che di scoprire la verità non ne ha la benché minima voglia. C'è una giustizia che mette in piedi processi infiniti e molto spesso ingiusti.
Gli abitanti di Annawadi non hanno nessuno dalla loro parte, non possono far altro che cercare di sopravvivere. I più fortunati, come Mirchi, il fratello di Abdul, riescono a trovare lavoro come camerieri nei lussuosi alberghi di Mumbai.
Annawadi e la sua povertà sono lì, a un passo da quell'aeroporto frequentato dai ricchi occidentali, chiusi nei loro lussuosi hotel. A dividere l'aeroporto dallo slum è un muro che non fa vedere oltre ai turisti. Turisti che, d'altra parte, non sono nemmeno interessati a scoprire che cosa nasconde.
Quel muro è ricoperto dalla pubblicità di mattonelle made in Italy, belle per sempre. Mattonelle che le donne di Annawadi sognano di avere, un giorno. La realtà invece è che presto non avranno più nemmeno le loro baracche, presto verranno demolite per ampliare l'aeroporto, ma finché non succede va bene così. Si continua a vivere una vita tra canali di scolo e ratti, una vita che è pur sempre una vita.
Sul retro della copertina c'era scritto che questo libro avrebbe entusiasmato i lettori di Khaled Hosseini. L'ho preso soprattutto per questo. Alla fine della lettura posso dire di non essere tanto d'accordo, nel senso che Khaled Hosseini ha scritto romanzi con dentro belle storie commoventi e inventate, storie intrecciate ad hoc per tirare fuori un qualcosa di bello e emozionante. Qualcosa che finisce là dove l'autore vuole che finisca. Belle per sempre è completamente un'altra cosa secondo me. È un reportage. Tecnicamente è una storia senza fine, perché le vite di Abdul, Asha, Sunil, Manju continuano dopo l'ultima pagina. Non c'è il lieto fine dove tutto torna a posto e vincono i buoni, perché si tratta di storie vere. Storie che forse un occidentale dovrebbe leggere, per capire che in fondo, come dice Abdul con una metafora semplice ma efficace, tutte le persone sono formate dalla stessa materia, come l'acqua. Sta poi ad ogni persona decidere se restare acqua che scorre in un canale di scolo oppure diventare ghiaccio. Solo che per noi nati nella parte ricca del mondo è un po' più facile decidere di fare in modo di diventare ghiaccio, di fare dell'onore e della rispettabilità uno stile di vita. Per chi invece nasce in una baracca senza acqua corrente e senza la minima igiene tutto è più complesso. Per loro spesso la corruzione è l'unico mezzo di sopravvivenza disponibile.
♥ Le frasi che ho sottolineato