Ed ora, vedovo e con tre figli ormai adulti, arrivato ad un’età in cui i sogni nel cassetto hanno preso definitivamente forma, vorrebbe che la sua progenie si desse da fare per realizzare una propria dimensione, lavorativa in primo luogo, senza chiedersi però se il loro evidente lassismo esistenziale possa essere dovuto anche all’assenza di una figura di riferimento, cui fare affidamento nei momenti difficili, in particolare dopo la scomparsa della madre.
Ma andiamo a conoscere questi belli di papà, in ordine di venuta al mondo.
Ecco Matteo (Andrea Pisani), già inserito nell’azienda paterna e probabile continuatore, per quanto le sue idee bislacche, suggerite da una sorta di “manuale del bravo imprenditore” e quindi lungi dall’appartenere ad una personale intuizione, vengano sbeffeggiate dal socio del padre, Giovanni (Antonio Catania) e foraggiate spesso a fondo perduto.
Diego Abatantuono
Vi è poi Chiara (Matilde Gioli), intenta a spendere più che a gestire il patrimonio familiare, fra acquisti futili e frequentazioni di locali alla moda, che si accompagna al fidanzato Loris (Francesco Facchinetti), public relator maneggione e fanfarone; Andrea (Francesco Di Raimondo), iscritto alla Facoltà di Psicologia da due anni, senza avere però mai dato un esame, che parla a frasi fatte, estrapolate dalla lettura del momento e propenso a suscitare un certo istinto protettivo nelle donne mature. Un lieve malessere di Vincenzo, furbamente spacciato per infarto, non sembra scuotere i tre ragazzi dalla loro ignavia dorata, per cui l’imprenditore escogita un piano “diabolico”: finge un’improvvisa bancarotta fraudolenta ed organizza una pronta fuga per sfuggire alla Guardia di Finanza, facendo scomparire ogni traccia, conti bloccati e telefonini da dimenticare.
Luogo prescelto, Taranto, dove l’ormai fatiscente casa dei genitori di Vincenzo sarà la loro dimora. Qui Matteo, Chiara e Andrea dovranno darsi da fare per mandare avanti la baracca e sostenere il padre infartuato. Le sorprese non mancheranno …
Antonio Catania
Pur nei suoi limiti, che andrò ad illustrare, credo che un film come Belli di papà possa essere preso ad esempio, insieme a pochi altri (penso alle opere di Pif, Sibilia, De Leo, Falcone), quale possibilità di proporre un tipo di cinema “medio”, idoneo a conciliare tanto la risata quanto un minimo di riflessione, quindi del tutto rientrante nel termine “commedia” propriamente inteso. Evidente anche la volontà di smarcarsi, pur non partendo da un soggetto originale (la base è Nosotros los nobles, pellicola messicana del 2013, diretta da Gary Alazraki, a sua volta ispirato a El gran Calavera, Luis Buñuel, 1949), dalla serialità delle proposte proprie del commedificio italico, intento alla stanca coazione a ripetere di gag polverose e sketch altrettanto stantii.
Buono il lavoro di sceneggiatura messo in atto da Giovanni Bognetti e dal regista del film, Guido Chiesa, che hanno adattato un soggetto, come scritto preesistente, a situazioni sociali e di costume proprie del nostro paese senza cadere nel facile stereotipo, per quanto la mia personale sensazione sia che Belli di papà brilli più per singole situazioni che per la sua struttura complessiva, in primo luogo a causa di una certa frettolosità evidente nel finale, pur riconoscendogli la capacità di esprimere una conclusione da valida favola morale e non poi così buonista come potrebbe apparire di primo acchito.
Matilde Gioli, Abatantuono, Francesco Di Raimondo, Andrea Pisani
In seconda analisi la pur valida regia di Chiesa appare a volte fin troppo attenta e studiata, nella probabile intenzione di offrire una semplice visualizzazione degli eventi nel loro succedersi e manifestarsi sullo schermo più che caratterizzarli coi toni della denuncia in forma di satira sociale, anche se è doveroso encomiare l’intelligenza nel dare visione di un Sud (la città vecchia di Taranto, Avitrana) lontana dalla fin troppo consueta “bella cartolina” o “splendida cornice” che dir si voglia, rimarcata da una fotografia (Federico Masiero) capace di raffigurare con realismo tanto i toni ovattati, rassicuranti, della metropoli lombarda quanto quelli più ruvidi della terra pugliese, dominata da un senso di degrado ed abbandono, cui solo l’operosità e l’ingegno dei singoli potranno porre rimedio, ovviando all’immobilismo istituzionale. Altro grande merito registico è l’attenzione posta alle singole interpretazioni attoriali, in particolare il risalto offerto ad un Abatantuono nuovamente in gran spolvero, mattatore capace di conciliare con sagacia e consumata accortezza le diverse sfumature caratteriali di Vincenzo, un padre che rimprovera i figli di essere privi di spina dorsale senza essersi mai chiesto quale immagine abbia loro offerto nel corso della crescita o interrogato almeno un attimo sulla propria condotta di vita, non del tutto adamantina. Ottimo l’apporto di Antonio Catania, spalla altrettanto sobria e misurata.
Catania e Abatantuono
Ed è molto bello il modo in cui viene affrontato il dibattito generazionale, una conoscenza gradualmente ricondotta verso i parametri di un rapporto padre-figli in odore di reciprocità, con un’efficace rappresentazione dell’interazione che si viene a creare fra di loro, prima con una certa diffidenza (particolarmente riuscita la sequenza in cui il genitore distribuisce la razione giornaliera di cibo in base alla fruttuosità degli impegni lavorativi dei ragazzi o quella della scoperta, quasi deflagrante, delle loro problematiche comportamentali) e poi con una compiuta complicità, pur nel mantenimento dei rispettivi ruoli (ancora una sequenza intorno al desco familiare, il racconto dei rispettivi debutti amorosi).
E per quanto semplificato nello svolgimento, funziona anche l’approccio di Matteo, Chiara ed Andrea al mondo del lavoro e ad un ambiente “primitivo” rispetto alla città di provenienza (non mancano battute cattive sul modo di lavorare “alla c**zo” dei meridionali, almeno fin quando non si prende coscienza di come tutto possa migliorare rimboccandosi le maniche e facendo comunque la propria parte), la scoperta delle relative capacità, in particolare le intuizioni di Matteo e il graduale sciogliersi della snobistica albagia propria di Chiara.
Anche Facchinetti appare del tutto in parte nei panni di un individuo volpino, infido e laido.
Gioli ,Francesco Facchinetti e Abatantuono
E’ quindi un peccato, avviandomi così verso la conclusione, che, considerandone comunque i pregi emergenti pur in maniera discontinua nel corso dell’iter narrativo, la regia di Chiesa difetti di un certo polso nel conciliare riflessione, intimità e divertimento, con un passaggio fra le varie gradazioni a volte brusco, discontinuo, mitigato comunque, come scritto, da un’efficace coralità interpretativa e soprattutto dal ritrovato mix di naturalezza e autorevolezza proprio di Abatantuono. Quanto basta per tracciare una pur sottile di demarcazione fra realizzazioni capaci d’inserirsi, rinnovandoli, tra i canoni propri della commedia all’italiana di un tempo ed altre dedite allo scomposto riciclo di clichés “pronto cuoci”. Viene raggiunto in definitiva quello che ritengo sia stato l’obiettivo primario fin dalle fasi di produzione, ovvero un coerente connubio fra una ricercata e composta leggerezza, nel senso positivo del termine, ed un occhio di riguardo nei confronti del pubblico, nell’intento di offrirgli un coinvolgimento maturo narrando di un tema attuale, affrontato offrendo spazio ad un senso d’umanità lontano da compiacimenti ruffiani o pacche sulla spalla auto assolutorie.
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Le foto a corredo dell’articolo sono di Loris T. Zambelli