Eppure per la Frances Ha del titolo le cose stanno in una forma appena differente: lei sa benissimo cosa vuole, ciò che non paga nella sua vita è il percorso - apparentemente logico - che ha scelto per arrivarci. La sua migliore amica e i suoi coetanei, invece, insistono a girare a vuoto: scelgono e cambiano, lasciano e prendono, inseguono e mollano, volteggiando in tondo ad un'esistenza che sembra non avere né identità di crescita, né di maturazione. Ecco allora come quello di Baumbach si rivela sguardo preoccupato e contemporaneamente nitidissimo, il ricalco privo di sbavature che intercetta e colpisce una classe prossima al trentennio che nulla ha a che vedere con le stesse, meno frastornate, che l'hanno preceduta. Il vagare insistente e a ritroso della dolcissima e sbadata Frances viene assorbito dalla pellicola come fosse un viaggio antropologico nell'intimità e nella psicologia di entità sperdute, afflitte ognuna da un malessere non scelto personalmente ma scaturito dalla mancanza di punti di riferimento ai quali potersi aggrappare per cominciare un cammino ordinato e intercettare la propria strada.
Lo scopo è quello di guardare alla negatività con sguardo positivo, dicono sia Baumbach che la Gerwig (che ha collaborato insieme al regista alla scrittura della sceneggiatura), mentre con tocco dolce e delizioso ammettono le difficoltà oggettive di una realtà e di un futuro, ora come non mai, carico di incertezze, paure e false promesse. Il loro consiglio però è quello di non curarsene e di buttarsi, di sfruttare questa desolazione per perdersi lungo il cammino e, chissà, ritrovarsi poi increduli davanti allo stesso traguardo che inseguivamo all'inizio.
Scoprendo, magari, di aver perduto qualcosina ma di aver guadagnato molto, molto di più.
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