Tra i due episodi della saga di Riddick, Pitch Black (2000) e The Chronicles of Riddick (2004), spunta questo Below, sempre per la regia di David Twhoy, che nulla ha a che vedere con i precedenti, ma parte da una locandina affascinante e da un’ambientazione intrigante come poche: un sommergibile della Marina Statunitense, in pieno atlantico, nel 1943. E ci costruisce sopra una trama della durata di un’ora e quaranta, pescando a più non posso da tutto il cinema di genere e non.
Esempio di film artigianale? Non saprei. Dalle prime inquadrature e dalle musiche è subito chiaro quale sia lo scopo della pellicola: intrattenere.
Nessuno spessore dei personaggi, nessuna inquadratura rivelatrice, ma solo un esercizio di stile, alla maniera di Twohy che, personalmente, ho apprezzato nel film del 2000 e odiato in quello del 2004.
Da questo non sapevo cosa aspettarmi. Passato inosservato fino a ieri, quando Edu me l’ha segnalato.
Divertente, vado a spulciare la scheda su IMDb e ci trovo assegnate dieci stellette, voto massimo, accompagnate, però, da un titolo ambiguo: “A smart, chilling “B” picture”.
Non mi scoraggio. Anche se di b-movie si fosse trattato, questo è il periodo e il posto giusto.
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Ed inizia bene. Devo ammetterlo.
La suspense David non solo la crea, ma la amministra con mano ferma. sfoderando tutti i trucchi del mestiere. non foss’altro che il set, in parte collocato su un vero sommergibile del periodo, favorisce la tensione: spazi angusti, profondità oceaniche fredde e buie, il senso di claustrofobia e di impotenza che si prova sapendo di essere in una scatola di sardine, stretti d’assedio da una nave gigantesca che, complice il conflitto mondiale, ci ha preso di mira. Se ne discuteva qualche giorno fa sul blog di Alex (QUI): c’è qualcosa di più terrificante del mare e della nave, o sommergibile in questo caso, sulla quale siete a bordo? Esiste forse un altro posto al mondo dove, nel caso in cui le cose andassero storte, per una qualsiasi ragione, vi sentireste meno alla mercé non già della natura, ma dell’ignoto?
Se a questo ci aggiungete che David, da gran furbone, ci mette il tocco di classe, questo pezzo di Benny Goodman, che di colpo rende le fredde pareti metalliche calde e pulsanti di vita, be’, si può persino avere l’impressione di trovarsi di fronte un film che non era il caso di perdere.
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Ed è bello, per oltre un’ora. Tra i vari protagonisti, membri dell’equipaggio, e tre superstiti salvati fra i rottami di una nave affondata, serpeggia la paranoia e la consapevolezza di trovarsi a bordo di un’imbarcazione maledetta, dove la gente, negli angoli bui o riflesse sugli specchi, inizia a vedere cose strane, tante cose non proprio giuste. E scatta quel meccanismo perverso che ti fa godere dei tetri passaggi del sommergibile, alla ricerca di un indizio. Il Capitano è morto, era lui che amava la musica di Benny Goodman e, forse, è la sua voce, quella che si sente risuonare, di tanto in tanto, tra le brandine?
Ma c’è anche un’altra possibilità: i danneggiamenti che il sommergibile ha subito, nella sua fuga dalla corazzata che gli dà la caccia, possono aver compromesso l’impianto di aerazione e i relativi filtri. C’è troppo idrogeno nell’aria, e l’equipaggio lo respira. E questo potrebbe spiegare, in un colpo solo, tutti i disturbi psichici, più o meno gravi, che sembrano turbare le menti degli uomini, fino a quando uno di loro, appassionato di storie dell’orrore si lancia in una di quelle spiegazioni, metafisiche, che, per come è raccontata e per il momento in cui viene raccontata, ti coinvolge, strappandoti un sorriso compiaciuto.
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Eppure il film è quello che è. Senza giri di parole, tanto è bella la prima ora, tanto è calante l’ultima mezz’ora. Afflitta da numerosi cliché, colonna sonora chiassosa e inutile, ad accompagnare momenti già di per sé tensivi e quindi pleonastica, oltre che stereotipata; chiarimenti sul ponte, ovvi quanto inutili, all’ultimo secondo, per fornire il rassicurante spiegone finale, perché si sa, tutti devono capire fino in fondo e guai a lasciare qualche gustoso dubbio allo spettatore. E il sommergibile che, da essere trappola elegante, lucida e terribile, perde via via smalto, fino a essere un involucro anonimo, vittima di un equipaggio, vivo o morto che sia, tra lo sciocco e lo scontato. Peccato.
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