Ben frost, a u r o r a

Creato il 23 giugno 2014 da The New Noise @TheNewNoiseIt

“(…) no guitars, no piano, no strings. I mean, it was like cutting my arms off”, dice Ben Frost a Chal Ravens di FACT. E aggiunge: “really that’s pure Eno-ism. That’s pure Eno. Cut your nose off to spite your face and just see what happens”. È un buon punto di partenza per riflettere anzitutto su cosa non c’è nel nuovo album di questo sound artist australiano trapiantato in Islanda, il quale, su iniziativa mecenatistica della Rolex (già!) ha persino passato un anno “a scuola” con l’inventore dell’ambient music, ma non si è per niente accontentato (contiamo, ad esempio, la su presenza in Ravedeath, 1972 e Virgins di Hecker).

Le nuove braccia di Frost sono state quelle di Greg Fox (ex Liturgy e ora negli Zs), Thor Harris degli Swans (Ben suona qualcosa su due tracce di The Seer) e Shahzad Ismaily (multi-strumentista, Secret Chiefs 3), quindi ecco che ci s’imbatte nella batteria “filthiana” (godfleshiana?) di “Secant”, in evidenza, davanti nel mix, pesantissima, ripetitiva e soffocante anche grazie alla trasfigurazione digitale, a confermare l’interesse dell’uomo per le frange più estreme del rock. Occorre immaginare questo strumento calato in un contesto rumoroso e imbottito di sintetizzatori (di nuovo Tim Hecker), utilizzato nei modi appena descritti, ma a volte pure affiancato a (o messo al servizio di) scelte apparentemente di segno opposto: palesi citazioni, sempre avvolte in una coltre noise, di battiti e melodie – a volte davvero brutte – provenienti dal mondo della dance anni Novanta (che c’entri la sua breve partecipazione a OR di Kangding Ray?).

Ben Frost, anche a giudicare dai votoni che gli danno, è un personaggio decisamente contemporaneo: si serve del laptop ma è cosciente della necessità di aggiungere errori e imperfezioni umane al proprio lavoro, è onnivoro, bulimico e sincronico dal punto di vista musicale (lui e Gnaw Their Tongues si assomigliano molto, per certi stranissimi versi), infine riesce guardare anche verso altre forme espressive (il progetto “Solaris”, il periodo passato in Congo per “The Enclave”). Sopravvive, da qualche parte nella mente, la sensazione che sia anche un pochino sopravvalutato,  ma a cinque anni da By The Throat, A U R O R A va sentito per capire come vanno le cose in ambito elettronico, basti pensare che la produzione dell’album ha coinvolto anche Valgeir Sigurðsson, Lawrence English e quel signore canadese che non intendo nominare per la terza volta.

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