Benedetto Croce. Il discorso di Pescasseroli (1910)

Creato il 08 febbraio 2014 da Silcap

Benedetto Croce (Pescasseroli, 25 febbraio 1866 – Napoli, 20 novembre 1952)

Amici di Pescasseroli,

tornare al luogo dove si è nati, tra le accoglienze benevole e festose dei propri concittadini, dopo che si è percorso gran tratto della vita e l’uomo, molto o poco che sia, è quello che poteva essere e quale con tutti i suoi sforzi è riuscito a farsi, è un alto compiacimento e un grande premio, che io ora debbo a voi, amici di Pescasseroli. Ma, credetemi, questo compiacimento è stato in me come soverchiato dall’onda degli altri affetti, che mi si è agitata nell’animo. Quantunque io non abbia, prima di questi giorni, percorso materialmente la via che conduce a questo paese, l’ho percorsa infinite volte con la fantasia; e quantunque ora per la prima volta abbia contemplato la casa dei miei progenitori materni, la piazza, la chiesa, i ruderi del castello, li avevo già visti molte volte come in sogno. A me, fanciullo, i racconti di mia madre, nei quali appariva sempre una città biancheggiante di neve, quasi divisa dal mondo, e una vasta casa dove si stava intimamente raccolti intorno al lieto fuoco del camino; nei quali si narrava di uomini forti e austeri, di pastori, di innumeri greggi, e poi ancora (argomento prediletto alla curiosità del bambino) di soldati e di briganti, e meglio ancora di cacce e di orsi (poiché il bambino si interessa agli animali assai più vivamente che agli uomini), questi racconti, queste descrizioni, facevano di Pescasseroli per me come uno di quei paesi delle fiabe, che non si sa mai se siano o no esistiti. E un po’ paese di fiabe rimase per me, anche quando divenni adulto. Tanto, che se dovessi cercare la ragione profonda per la quale io, che pure sono andato in giro per molta parte del mondo, non mi ero ancora risoluto a venire a Pescasseroli, nonostante gli incitamenti dei miei affettuosi zii e i propositi ripetuti, mi accorgerei che c’era, in fondo al mio animo, il ritegno a realizzare il mondo del sogno, a sostituire immagini precise a quelle ondeggianti che erano nel mio cuore ricche di tanto significato, giacché facevano tutt’uno con l’immagine di mia madre.Ed eccomi ora qui, che ho toccato il fantasma del sogno, e mi trovo anche materialmente in mezzo a voi. E voi vorrete saperequale impressione io ora provi e se la realtà superi il sogno o se il sogno di prima superasse la realtà. Ed io vi risponderò che ancora una volta ho fatto l’esperienza, sopra me stesso, che il sogno è buono e la realtà è altrettanto (se pur diversamente) buona; che l’uomo è costituito di sogno e di realtà, di immaginazione e di azione, e l’una deve rafforzare l’altra e non sostituirsi all’altra, come suole negli spiriti, o grossolani, che non sognano mai, o fiacchi, che sognano sempre. Nell’entrare nel vostro e nel mio paese, quando ho scorto il popolo assiepato sulla via, in quei visi di uomini, di donne, di vecchi, di fanciulli, mi è parso ritrovare antiche conoscenze, come di fratelli e sorelle, da cui si sia vissuti lontano e nei quali pur si scorgono, al primo incontro, i tratti fraterni. E via via che stringevo le mani a ciascuno di voi, udivo nomi che mi erano familiari dall’infanzia, mi risorgevano innanzi figure simpatiche, ricordavo di aver conosciuto di qualcuno il padre, di altri lo zio, di altri il fratello, e qualcuno, perfino, ho ricordato di averlo visto, giovane, presso mio padre, e mi son compiaciuto di ritrovarlo, dopo tanti anni, non troppo diverso d’aspetto. La casa dei miei buoni cugini, che subito mi ha accolto, per quanto grande me la dilatasse la fantasia, non ha smentito l’iperbole fantastica; e ho calcato col piede nel salotto le pelli di quei neri animali che già avevo visti attraversare la bianchezza nevosa del paesaggio. Nel percorrere i libri allineati nella biblioteca di famiglia ho riconosciuto le legature di certe collezioni di racconti che avevano dilettato mia madre, e che ella si faceva mandare talvolta dal fratello per darli a leggere a me giovinetto. E tutto si è riempito per me di un nuovo e più saldo, se anche meno fantastico, sentimento di affetto. La vostra piccola città, se volete saperlo, mi è parsa più bella, più ampia, più gaia, e (perdonatemi) più civile di come io la vagheggiavo; e tutt’altro che divisa dal mondo, perché qui, come si sente dai vostri discorsi, voi vivete del tutto affiatati con la vita italiana e moderna; e, anzi, è evidente che Pescasseroli, nome noto a così pochi per il passato (quantunque sia segnato nella geografia che il savio arabo Edrisi scrisse per Ruggero re di Sicilia), che il nome di Pescasseroli diverrà, fra non molti anni, familiare a tutti, come sono familiari i nomi dei villaggetti svizzeri; perché qui converranno, e da Roma e da Napoli e da ogni parte, i villeggianti e gli escursionisti. Mi accorgo di parlarvi di sentimenti troppo personali e intimi, come accade a chi, tutto pieno della sua passione, crede che anche gli altri debbano prendervi interesse; sebbene io sia incoraggiato dal trovarmi circondato da persone, che per me non hanno visi di estranei. E perciò vi dirò anche che Pescasseroli non è stato soltanto, per lunghi anni, nel mio spirito, un semplice oggetto di fantasticherie. Ho vissuto la mia vita a Napoli, tra una popolazione intelligentissima, calda, cordiale, impulsiva: e di Napoli conosco ogni pietra e ogni ricordo; e il figliuolo dei monti ha ormai il bisogno irrefrenabile di dimorare nel cuore di quell’antica città,tra vecchi campanili, e muri di monasteri, e resti di edifizi medievali e greci; dove più se ne sente la ricca e ininterrotta tradizione storica. A Napoli ho svolto la mia attività di uomo di studio, tra compagni carissimi e giovani che mi si son fatti spontanei discepoli. Eppure io ho tenuto sempre viva la coscienza di qualcosa che nel mio temperamento non è napoletano. Quando l’acuta chiaroveggenza di quella popolazione si cangia in scetticismo e in gaia indifferenza, quando c’è bisogno non solo di intelligenza agile e di spirito versatile, ma di volontà ferma e di persistenza e resistenza, io mi son detto spesso a bassa voce, tra me e me, e qualche volta l’ho detto anche a voce alta: – Tu non sei napoletano, sei abruzzese! – e in questo ricordo ho trovato un po’ d’orgoglio e molta forza. Vedete dunque quanta gratitudine io debba provare verso questa terra e verso i miei maggiori! A questa gratitudine si aggiunge ora l’altra, che debbo a voi tutti. Pescasseroli, 21 agosto 1910

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